S’intitola “La persona tra potere e libertà” l’incontro con la regista Margarethe Von Trotta proposto dal Centro Culturale di Milano (venerdì 7 novembre ore 21, sala Sant’Antonio 5, in conversazione con Camillo Fornasieri e Monica Scholz). Colpisce la frase di Hannah Arendt scelta per accompagnare la preziosa serata. Un frammento che incalza e mette a nudo qualsiasi tentativo di accomodare la realtà. Specie quando si presenta quasi intollerabile: «Una crisi ci costringe a tornare alle domande». Margarethe Von Trotta è un’irregolare della cultura europea. Una personalità non allineata, per nulla incline a farsi ingabbiare dal conformismo, anche quando proviene da orizzonti che le dovrebbero essere affini. La sua vicenda umana e insieme artistica ha sempre rappresentato un punto di forte contraddizione; interessata più a scandagliare la verità dei suoi personaggi piuttosto che limitarsi ad ampi affreschi sociali con il rischio di cedere il passo alla retorica.
Più che un cinema delle idee il suo è prima di tutto un cinema di volti, di storie, di esperienze dilanianti. Anche complesse e controverse da sbozzare. E soprattutto sono facce di un universo femminile verso il quale Von Trotta manifesta una naturale e profonda simpatia. Senza, però, fare sconti, sconti ai quali neppure lei si sottrae. Come se la crisi, il venir meno a certezze astratte, aprisse finalmente a riflessioni autentiche.
Per certe sue scelte, umane prima che artistiche, spesso è stata tacciata di intimismo e di uno sguardo alle persone troppo orientato a privilegiare la sfera del privato. Giudizi ingenerosi. La sua colpa? Ad esempio in Rosa L, dedicato alla figura della socialista tedesca Rosa Luxemburg, anziché puntare dritto sull’epica, principalmente sul grande impianto ideologico, Von Trotta ha preferito una narrazione “affettiva”, facendo emergere tutta la drammaticità della storia personale di quella eroina tragica. Eroina perché ad un certo punto coglie il vertice del problema, il grande rimpianto, il desiderio inattuato che si fa consapevolezza che brucia: aver partorito idee anziché partorire figli.
In Anni di piombo, con il quale vinse nel 1981 il Leone d’oro a Venezia, Von Trotta si concentra sul terrorismo di casa propria, quello della Raf e sulla morte in carcere (suicidio?) di tre suoi leader. Anche qui poca concessione allo spettacolo e al sociale fine a stesso. Vi traspare un interesse a comprendere le ragioni che hanno spinto quelle persone ad operare scelte così definite, distruttive e autodistruttive. Una risposta alla crisi al fondo disumana, ancorché violenta. Ed è così che il dramma di una generazione passa attraverso il racconto, nudo e crudo, di precise storie. Laddove, il non detto, è che nessuno può a cuor leggero ritenersi innocente. La logica del potere e della presa del potere produce solo mostri. E il mostro alberga potenzialmente in tutti e ciascuno.
Nel suo affascinante percorso Von Trotta (di cui va detto di una sua avventura dietro la macchina da presa per raccontare della grande badessa Ildegarda di Bingen) non poteva non arrivare a fare i conti con un’altra intellettuale fuori dai giochi, tedesca pure lei: Hannah Arendt. La regista tedesca è partita, come sempre, da un fatto eclatante (il controverso processo Eichmann a Gerusalemme) per disegnare una grande figura femminile, libera, assalita dalle domande, quelle che recano dolore perché vere: il suo coraggio, il suo pensiero controcorrente (dolorosamente e affettivamente controcorrente), la sua intuizione drammatica di ricondurre l’incedere quotidiano del male dentro l’alveo della normalità, della miseria umana, anche quello più vertiginoso e intollerabile come l’olocausto.
Dunque incontrare Von Trotta rappresenta una bella occasione di paragone con un’intelligenza appassionata della vita. Curiosa di tutto. Dei grandi accadimenti che passano dentro le apparentemente piccole questioni: la grande Storia percossa da quel mistero insondabile che si chiama uomo. Perché a lei interessano le donne e gli uomini che spendono fino all’ultima goccia di sangue nel tentativo di affermare un senso al desiderio che scoppia nel proprio cuore (al di là degli esiti, non di rado tragici, come insegna il Novecento, secolo breve ma segnato dalla crisi profonda del soggetto). Un’intellettuale irrequieta, certo. E proprio per questo affascinante nel suo continuo interrogare e interrogarsi. Che varrà la pena di ascoltare in un incontro che si annuncia imprevedibile. E non potrebbe essere che così, visto che parliamo di una donna, di un’artista, di un’intellettuale (nell’unica accezione che merita) che si è sempre mossa «in direzione ostinata e contraria», per dirla con il grande Fabrizio De Andrè. A proposito di irrequieti…
(Edoardo Manes)