Case sventrate, strade inghiottite dalla natura, raccordi autostradali spezzati. Il mondo in scala di grigi dopo il disastro. Le città fantasma hanno popolato l’immaginario di una parte della nostra letteratura più recente. Basti pensare alla Strada di Cormac McCarthy, Premio Pulitzer 2009, tre anni più tardi ben trasportata sul grande schermo da John Hillcoat. Ma prima di McCarthy ci furono le intuizioni pionieristiche di Richard Matheson che iniziò a “combattere” gli zombie nel 1954 con Io sono leggenda o di Walter Miller che in Un cantico per Leibowitz vide un mondo più volte incendiato che tentava di rigenerarsi accanto agli antichi monasteri, come ai tempi di Benedetto.
Le città spettrali esistono però anche nella realtà: come l’ucraina Pryp’jat’, nei dintorni di Cernobyl, dove tutto è sigillato al 26 aprile 1986, il giorno della catastrofe nucleare.
Nella graduatoria delle Ghost Town italiane, una posizione di tutto rispetto spetta a Consonno, la Las Vegas perduta della Brianza, la città dei Balocchi, il sogno franato che con le sue ruggini e le sue suggestioni continua ad attirare artisti, visitatori e anime inquiete.
La sua storia sembra sconfinare nella leggenda. Tutto ebbe inizio l’8 gennaio del ’62. In quella data il conte Mario Bagno (1901-1995) acquistò dalle famiglie Anghileri e Verga per 22.500.000 di lire il Borgo di Consonno (650 metri di altitudine sopra Olginate, non lontano da Lecco), che a inizio Novecento contava ancora 300 anime poi ridottesi drasticamente negli anni Sessanta. Il suo progetto era di trasformare un paese immerso nel verde che fino allora aveva vissuto sulla coltivazione di sedani e porri in una sorta di Eldorado. Come? Innalzando la città del divertimento: locali scintillanti, negozi straripanti di giocattoli e la presenza di star come Mina, Johnny Dorelli, Milva o i Dik Dik. Le ruspe iniziarono il lavoro implacabili. Furono risparmiate la medievale chiesa di san Maurizio, la canonica, il vecchio cimitero. Poi iniziarono a sorgere edifici stravaganti. Un minareto. Pagode in legno. Fontane circolari a forma di torre. Passerelle. Un piazzale lastricato di marmi. Il tiro al piattello, “caselli” stradali con tanto di armigeri…
Di quel fervore sognante sono testimoni le scritte, ormai assediate dalla ruggine, che si incontrano salendo dalla strada di Olginate. Sono le serrature della macchina del tempo e ci portano nel cuore degli anni Settanta: “Consonno è il paese più piccolo ma più bello del mondo”, “A Consonno è sempre festa”, “Chi vive a Consonno campa di più”, “Qui Consonno tutto è meraviglioso”.
È difficile ora intuire quello che fu Consonno. Le atmosfere spensierate, le fughe dalla realtà di una specie di Ur-Gardaland. La caduta della città dei balocchi fu rapida come l’ascesi. Ci fu la crisi degli anni Settanta, senz’altro, ma il colpo di grazia fu una frana del 1976 che bloccò la principale strada di collegamento.
La giunta del tempo non vedeva di buon occhio la spericolata operazione del Conte e rallentò il ripristino della viabilità. Consonno iniziò a spegnersi, come un albero senza radici, restando prigioniera del suo sogno. Immobile e perfettamente conservata, come le farfalle infilzate dei musei. Negli anni Ottanta rimase in funzione solo una casa di riposo, in quello che era stato l’Hotel Plaza. Poi chiusero anche questi battenti. Quanto era ancora conservato degli arredi fu spazzato via dal rave party della Summer Alliance (30 giugno-1° luglio 2007).
Chi s’avventura oggi tra gli sfasciumi di Consonno incontra uno scenario degno delle desolazioni della saga di The Walking Dead.
“La città era abbandonata da anni ma ne percorsero le strade ingombre di rifiuti con grande circospezione, tenendosi per mano. Superarono un cassonetto in cui un tempo qualcuno aveva cercato di bruciare dei cadaveri. Non fosse stato per la forma dei crani, la carne e le ossa carbonizzate sotto la cenere umida sarebbero potute passare inosservate… In fondo alla strada c’era un supermercato e in una delle corsie ingombre di scatoloni vuoti trovarono tre carrelli”. Questo è il McCarthy della Strada. Ma l’ambientazione di Consonno non è troppo diversa. Tutti gli edifici sono stati saccheggiati, hanno pavimenti ingombri di macerie e vetri.
Nel retro dell’Hotel Plaza, tra le sterpaglie, emerge una malinconica locomotiva. Presenza magica e bizzarra, come lo erano le veneri di pietra, le sfingi e le fontane multicolori. C’è però un leit motiv che ritorna agli occhi dei visitatori: gli arredi rossi del Conte Bagno. Se ne trovano brandelli in tutte le case. Eleganti poltroncine rosse anni Sessanta fatte a pezzi, come se fossero state prese a coltellate.
Consonno è la città dei murales. Ci sono lunghi draghi blu, uomini-pesce, donne ciclope, e le massime d’accompagnamento: “Anche se non siamo gigli, siamo cmq figli”, “snobbo l’apparenza cercando la sostanza”, “Acab finché vivo, finché respiro, finché morte…”
A proposito degli anni “ruggenti” di Consonno: su Youtube c’è il filmato più prezioso (produzione Heza) intitolato “Consonno 1972”. Dura poco meno di tre minuti e ha un’azzeccata colonna sonora. Si vede l’azzurro della piscina, le famiglie sotto i ponti tibetani, un cannone finto e una ragazza vestita di verde dai lunghi capelli rossi che appare e subito si dissolve come una musa di Montale.
Un’altra fonte interessante è il documentario di Cesare Bernasconi intitolato “Insonne Consonno” andato in onda il 25 aprile 2004 sulla Tsi (anch’esso facilmente recuperabile sul web): nel materiale di repertorio appare il Conte Bagno: “Farò il circuito in quella zona là […] è uno dei più belli per la zona panoramica quasi d’Europa; vorrei dirlo forte perché forse un circuito così se avrò i mezzi non ci sarà uguale, è piccolino ma molto elegante; lì sotto farò il campo di calcio, il campo della pallacanestro… qui vengono i campi da tennis, delle bocce, e da minigolf, di là dovrà venire la pista del pattinaggio, luna park e uno zoo di bestie da parco e giardino, un grande zoo, con un grande ristorante popolare con orchestrine curiose, è vero, per attirare tutto il pubblico naturalmente…”.
Per chi fosse interessato ad approfondire questa storia c’è il documentatissimo sito www.consonno.it con importanti notizie (e le precauzioni) anche per un’eventuale visita. Notevole la sezione “Emozioni da Consonno” dove sono raccolti frammenti che ricordano l’età dell’oro della città. Ecco, per esempio, il ricordo di un certo “Generale Lee”: Consonno “era davvero speciale. Io, la conoscevo molto bene, perché le domeniche d’estate, mio padre portava tutti noi. Non so quanti bambini hanno avuto la fortuna di andare in un posto così. Era in assoluto la città dei balocchi! […] tra quei portici, c’era la passeggiata dei bambini… c’erano negozi, solo di giocattoli. Ce n’erano talmente tanti, che i negozianti ne mettevano anche fuori; attorno ai pilastri, o in grandi ceste di vimini. Mio padre, quasi tutte le volte che andavamo lì, ci comprava sempre un aereoplanino di balsa. […] Però, su una cosa, volevamo salire sempre; le macchinine a batteria, che giravano attorno ad una piazzetta; con il pavimento di marmo, lucidissimo. Queste macchinette strane, avevano il sedile tipo moto; ma con il volantino da macchina, e la forma, rassomigliava ad un gatto venuto male…”.
Il futuro di Consonno è incerto. Periodicamente torna alla ribalta per una possibile bonifica o riqualificazione. Per adesso restano le sue costruzioni butterate, i suoi visitatori dall’anima dark, i suoi tanti fantasmi. Quel che è certo è che rimane uno spunto di meditazione sull’Oltre. Quasi un correlativo oggettivo del caustico Qohélet, magari nella splendida versione di Ceronetti: “Un infinito vuoto / dice Qohélet / un infinito niente / tutto è vuoto niente // Tanto penare d’uomo sotto il sole / che cosa vale?”.