The Final Reckoning non è il più spettacolare episodio della serie Mission: Impossible, ma certamente è il più assurdo
Con il film Mission: Impossible – The Final Reckoning si riparte da dove eravamo rimasti. Una perversa Entità si è quasi impossessata del mondo e minaccia la sua distruzione. Per disinnescarla, serve una chiave a forma di croce che permette di accedere al codice sorgente, sepolto in un sottomarino affondato e disperso da qualche parte nel profondo degli oceani, sotto alla calotta polare.
Sul campo c’è Ethan, agente ribelle per tradizione (che vuole distruggerla, “avvelenandola” con false informazioni), l’IMF che vuole conservarla per donarla agli Stati Uniti, oltre ai russi (che non possono mai mancare in un film di spionaggio) e al cattivo e avido di turno, Gabriel, ex agente operativo dell’IMF. Tutti contro tutti.
Dal 22 maggio, solo al cinema. Perché Mission: Impossible – The Final Reckoning è uno di quei film che su piccolo schermo ha davvero poco senso. Le uniche carte a sua disposizione, quando siamo ormai giunti all’ottavo episodio della serie, se le gioca sul fronte del puro spettacolo che, anche in questo capitolo, certamente non manca.
Il buon Tom Cruise, presente anche in veste di produttore, introduce lo spettatore con un benvenuto a quello che certifica essere, secondo lui (e le necessità del suo marketing) il film più spettacolare della serie. Spoiler: non lo è. The Final Reckoning non ha la potenza, divenuta quasi iconica, di alcuni episodi del passato.
A soffrire di più è l’occhio e la sua passione estetica che abbiamo soddisfatto diverse volte, e meglio, nei colorosi apocalittici scenari della saga. Penso alle vertigini del Bury Khalifa, alla sabbia opprimente delle tempeste desertiche, alle scogliere a picco sui fiordi della Norvegia, al treno in folle corsa sulle Alpi o, alla madre di tutte le scene, con Cruise sospeso nel bianco assoluto e asettico del quartier generale della CIA. Episodio 1 (di un certo Brian De Palma…). Ovviamente il migliore della serie.
Qui si viaggia un po’ meno del solito, tra il mare di Bering, Londra, forse Budapest, l’Oceano pacifico, i ghiacci polari, lo Studio ovale del Presidente statunitense (una donna afro-americana al comando) e altri luoghi non ben specificati che mancano un po’ del fascino della novità e della scoperta.
The Final Reckoning, è vero, non è il più spettacolare episodio della serie, ma certamente è il più assurdo, trovando il suo picco surreale nella lunga scena in acque profondissime, a temperature glacialissime, dentro a un sottomarino nuclearissimo dove, sfortunatamente, rompe la sua fragile tutina subacquea per rimanere a corpo seminudo. Un corpo su cui il regista indugia più volte, nel film, proponendo anche scene di lotta greco-romana in boxer semi-aderenti, a certificare ufficialmente la lentissimissima decadenza fisica del Narciso capomissione.
Certo, di assurdo ci sono anche le scene a gravità improbabile, con Tommy aggrappato (per davvero) ad aerei in quota, coi capelli pisciati dal vento. Ma a questo siamo stati più volte educati in precedenza da sembrarci quasi naturale.
Al netto dell’assurdo, il consolidato regista Christopher McQuarrie, al suo quarto episodio, ci fa divertire come al solito, spandendo in 164 virtuosi minuti le rocambolesche avventure muscolari del supereroe più umano che c’è. Da 30 anni alfiere dell’impossibile. Da 30 anni accompagnato dalla sua fedele, ironica e spietata squadra di specialisti della tecnologia.
Alla fine (di quello che sembrerebbe essere l’ultimo episodio), tra un morto e l’altro, si insinua il messaggio morale, educativo e buonista di amore, fedeltà e fiducia provvidenziale nell’uomo e nella sua salvezza. Un messaggio affidato alle parole finali di Luther (il genio informatico fin dal primo episodio), che sembra vidimato, con inchiostro retorico, da Scientology e da Hollywood, per l’occasione “partner in crime”.
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