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Home » Cultura » Storia » MONTAGNA/ Solleder-Lettenbauer, 100 anni dal primo “sesto grado” e un incantesimo che non tramonta

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MONTAGNA/ Solleder-Lettenbauer, 100 anni dal primo “sesto grado” e un incantesimo che non tramonta

Il 3 agosto 1925 Gustav Lettenbauer ed Emil Solleder riuscirono a superare la parete nordovest della Civetta, inaugurando l’epoca del “sesto grado”

Alberto Trevissoi
Pubblicato 6 Luglio 2025
La parete nordovest della Civetta (foto da Wikipedia)

La parete nordovest della Civetta (foto da Wikipedia)

Cent’anni fa. La sera del 3 agosto 1925. Un alpinista con un enorme zaino è salito da Alleghe ed entra nel rifugio Coldai, alla base del versante nord della Civetta. Alla fioca luce di una lampada a petrolio, vede seduti in un angolo due soli altri alpinisti. Si salutano, e subito capisce che sono, come lui, di Monaco di Baviera.


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Si inizia a chiacchierare e i due gli chiedono se ha saputo che pochi giorni prima due tedeschi, Emil Solleder di Monaco e Fritz Wiessner di Dresda, hanno vinto il versante nord della Furchetta, nelle Odle, uno dei grandi problemi alpinistici su roccia del momento.

A quel punto il Nostro non può più nascondersi: “Eh lo so, Solleder sono io”. Doveva infatti tentare ora anche la Civetta con Wiessner, che però all’ultimo era dovuto rientrare a Dresda e Solleder si era così deciso ad affrontare la Civetta da solo.


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Wiessner, per inciso, pochi anni dopo si trasferì negli Stati Uniti diventando cittadino americano e negli anni 30 partecipò a una delle sfortunate spedizioni tedesche al Nanga Parbat e, soprattutto, guidò una tragica spedizione americana al K2 in cui sfiorò la vetta, 15 anni prima del successo italiano.

I tre del Coldai, Solleder, Gustav Lettenbauer e Franz Goebel (o Gaberl, come lo chiama Solleder) si mettono subito d’accordo per fare cordata unica sulla “parete delle pareti”, come è universalmente noto il versante nordovest della Civetta, una muraglia verticale alta fino a mille metri e lunga 5 chilometri. Ora è quello il grande problema alpinistico, che però è talmente impressionante che stranamente, nonostante la sua fama, non ha dato luogo a veri e propri tentativi, salvo forse un assaggio di Langes e Merlet (famosi per lo Spigolo del Velo nelle Pale di San Martino) che nel 1921 rinunciarono presto lasciando in parete alcuni chiodi poi ritrovati da Solleder.


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Si favoleggiava di tentativi di mostri sacri dell’alpinismo, come Preuss e Dibona, che però si limitarono a lasciare le loro firme al Coldai ritenendo la parete inaccessibile. Nel 1910, in realtà, un altro bavarese, Gabriel Haupt, insieme a Karl Loempel aveva aperto una via di mille metri (poi riconosciuta di difficoltà estrema) nel settore destro della parete, che aveva però il difetto di culminare sulla Piccola Civetta, di pochi metri più bassa della cima principale.

Allora, il 4 agosto i tre di Monaco vanno all’attacco proprio sotto la verticale della cima e Lettenbauer supera da primo di cordata una fessura strapiombante che da allora porta il suo nome e che è indubbiamente di VI grado. Il mitico VI grado, per decenni simbolo del limite delle possibilità umane nell’alpinismo, quando la parete da verticale diventa strapiombante e il corpo per non essere rigettato nell’abisso dalla forza di gravità deve aggrapparsi con mani e piedi a minuscole prese nella roccia o a chiodi infissi a malapena in buchini e fessurine (oggi dopo un secolo siamo arrivati all’XI, il che significa scalare come lucertole soffitti orizzontali).

Ebbene, i tre salgono per 300 metri finché Goebel/Gaberl non si ferisce gravemente a un piede e sono costretti a un penoso bivacco in parete, flagellati dalla pioggia sopravvenuta. All’alba successiva riescono a scendere e a rifugiarsi di nuovo al Coldai.

Dopo un giorno di riposo, alle prime luci del 7 agosto 1925 Solleder e Lettenbauer ripartono, superano velocemente il tratto già vinto e dopo 15 ore, alla luce delle stelle, emergono sulla cresta finale a pochi metri dalla cima della Grande Civetta. Tutto qui, per la scalata che in breve da cronaca diventa storia e leggenda e inaugura ufficialmente, un secolo fa, l’epoca del sesto grado?

Ebbene sì, con alcune precisazioni. L’arrampicata fu ovviamente assai difficile, tra fessure, camini, placche verticali, scariche di sassi, cascate, e soprattutto la continua ansia di cercare il passaggio migliore nell’ignoto. Ma senza quei caratteri drammatici se non tragici che caratterizzarono molte “prime” del secolo scorso. Tanto che i due eroi la fecero senza bivacco (a differenza di molti dei ripetitori), a parte quello brevissimo già in cima, prima che la luna spuntasse e consentisse la discesa sul facile versante est.

Soprattutto, dal resoconto celebre di Solleder sembra che sia stato quasi sempre lui il primo di cordata a trovare il percorso. Tanto che la via è sempre stata denominata “Solleder” o al massimo “Solleder-Lettenbauer”. Poi il povero Emil morì pochi anni dopo, nel 1931, sulla Meije, in Francia, precipitando nell’abisso senza un grido mentre preparava una banale corda doppia di discesa sotto gli occhi terrorizzati della compagna di cordata. Quindi il suo scritto restò scolpito nella pietra.

Lettenbauer, che era uno scalatore forte almeno quanto Solleder ma senza pungoli di gloria (abbandonò l’alpinismo poco dopo la Civetta per dedicarsi alla famiglia e al lavoro, e visse 80 anni), puntualizzò poi in varie lettere e testimonianze orali che non solo la fessura iniziale, l’unica in realtà con passaggi estremi di sesto grado, la “tirò” lui da primo, ma poi andarono a comando alternato fino ai 300 metri finali, in cui Solleder si era ferito a una spalla e aveva anche distrutto le sue pedule, facendosi prestare quelle di riserva di Lettenbauer, che però erano enormi per lui, impedendogli di cercare agevolmente gli appoggi per i piedi.

Quindi l’ottimo Gustav guidò da primo anche la parte finale. Tanto che la via, secondo i più attenti studiosi di storia alpinistica, dovrebbe quanto meno chiamarsi “Lettenbauer-Solleder” se non addirittura “Lettenbauer” e basta. Ma la tradizione, anche in tempi di eventuale revisione da centenario, dubitiamo lascerà il passo.

Anche il fatto che da un secolo la via sia considerata l’inizio ufficiale del sesto grado sarebbe da discutere. Lo stesso Solleder con Wiessner sulla Furchetta aveva superato passaggi di VI. Per non parlare di Haupt sulla Piccola Civetta sin dal 1910. Chi in tempi moderni ha ripetuto entrambe le vie su Grande e Piccola Civetta assicura che la Haupt non è per nulla inferiore, anzi!, ma è svantaggiata dal fatto di terminare su una vetta di poco secondaria, dalla sua verticalità interrotta dall’attraversamento del piccolo ghiacciaio Cristallo incastonato nella parete (oggi ridotto a fine estate a poche chiazze di neve sporca) e dalla pubblicità nulla avuta ai suoi tempi, limitata a una minima relazione di Haupt che nessuno lesse.

In ogni caso, tirando le somme, la Solleder – o Lettenbauer! – merita il suo posto nella storia alpinistica come primo capitolo del sesto grado, per la lunghezza della via, l’esposizione e la verticalità continue, i pericoli oggettivi, le bufere improvvise che anche in piena estate possono essere gelide.

La scala di difficoltà in parete dal I al VI grado, tra l’altro, fu “codificata” dal tedesco Willo Welzenbach l’anno dopo, nel 1926, proprio sull’onda del clamore suscitato dalla prima ascensione sulla nordovest della Civetta. E solo nel 1978 venne aggiunto il VII grado, dopo che a proporre l’apertura verso l’alto della scala fu, indovinate un po’?, il nostro vecchio amico Fritz Wiessner. E dall’85 si aggiungono periodicamente nuovi gradi secondo l’evoluzione delle tecniche di arrampicata: per ora siamo appunto all’XI…

E così la Civetta continuerà a passare alla storia. Ma perché, vien da chiedersi, si chiama così? Molti hanno dato risposte, nessuna del tutto convincente. Quelle più dotte si richiamano agli antichi romani, quando era il baluardo di confine della Civitas Bellunorum, la Belluno di oggi.

Sempre da civitas, intesa come città murata e turrita, può derivare la sua estesa visione di catena verticale cinta da torri. La Civetta, in effetti, nelle giornate terse è ben visibile dalla pianura veneta, imponente dal bacino di San Marco a Venezia e financo dai colli bolognesi. C’è poi chi sostiene che da certe angolazioni di fondovalle possa ricordare una civetta con ali aperte e occhi spalancati. Mah, noi proprio non l’abbiamo mai vista così.

Invece, di tutte le interpretazioni preferiamo la più poetica. Quando il grande alpinista triestino Emilio Comici, la prima volta che la vide (anni dopo, nel 1931, vi aprì una sua celebre nuova via) chiese spiegazione del nome, un montanaro locale in mezzo dialetto gli rispose: “Perché Civetta? Perché la incanta…”.

Ecco, come il mitico uccello notturno, da sempre la parete delle pareti strega gli umani col suo mistero e il suo incantesimo.

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