Sono trascorsi cent’anni dalla pubblicazione di Ossi di seppia di Eugenio Montale per le edizioni di Piero Gobetti, che morirà l’anno dopo per le conseguenze delle violenze fasciste. Nel 1928 sempre a Torino a cura dell’editore Ribet uscirà la seconda edizione, aumentata di sei poesie, tra cui la fondamentale Arsenio, autobiografia in versi dell’autore e subito tradotta in inglese per la prestigiosa rivista The Criterion di T.S. Eliot, a cui il nostro poeta è stato con ragione avvicinato.
Mondadori ripropone ora, aggiornandola, la classica edizione commentata di Pietro Cataldi e Floriana D’Amely, con in apertura il noto saggio di Pier Vincenzo Mengaldo e in chiusura uno dei primi interventi sull’opera, datato 1926, di Sergio Solmi. È un’edizione che ci sentiamo di raccomandare anche agli studenti e ai lettori non specialisti per la chiarezza dell’esposizione e la precisione delle informazioni.
Sebbene per la maggioranza degli interpreti le due raccolte successive, Le Occasioni e La bufera e altro abbiano fornito esiti ancora più alti, non c’è dubbio che Ossi di seppia costituisca uno snodo fondamentale della storia della poesia di Montale e di tutto il nostro Novecento poetico: di fatto, è un libro che condensa gran parte dei motivi e della lingua del poeta ligure e non a caso resta la sua opera più diffusa e studiata.
Quando eravamo giovani studenti, i nostri favori andavano tutti a Ungaretti. Ci attraeva la sua commossa adesione alla vita, il suo “grido unanime”, la vertiginosa ricerca dell’Assoluto, la sua scoperta della solidarietà e della fratellanza di fronte alla tragedia della guerra.
Troppo freddo e intellettualistico il poeta degli Ossi e per di più ostico da decifrare nel suo lessico aulico o tecnico; cosa mai volevano dire quegli incipit, come “Arremba su la strinata proda” o “Aggotti, e già la barca si sbilancia”? Alzi la mano chi ha letto le poesie di Montale senza ricorrere al vocabolario. Il suo pessimismo ci appariva più radicale di quello di Leopardi, senza possedere l’incanto lirico del Recanatese.
Diventati insegnanti, la situazione non cambiò poi molto. I nostri studenti vibravano per In memoria, Fratelli, Veglia, San Martino del Carso, I fiumi, Dannazione, Soldati, la celebre Mattina; non parliamo poi dei versi de Il dolore per il figlio morto, davanti ai quali era difficile trattenere le lacrime. Montale ci offriva invece “qualche storta sillaba e secca come un ramo”, “cocci aguzzi di bottiglia”, “la vita che si sgretola”, “il male di vivere”, “il canto strozzato”, “la malinconia di un fanciullo invecchiato”, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, “il delirio di immobilità”…
Per arrivare a una partecipazione emotiva bisognava aspettare i versi per la moglie morta di “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”, in effetti una delle poesie d’amore più belle che siano mai state scritte.
Sarebbero dovuti passare anni di esperienze, di studio e di vita, per comprendere che in quei barlumi, in quegli interstizi, in quella “traccia madreperlacea di lumaca / o smeriglio calpestato”, in quell’iride, segno di una fede dura e ostinata, si annidava la voce poetica più alta del nostro tempo. Così abbiamo rivalutato questo poeta riservato e ironico, dai silenzi micidiali, che pubblicava un libro ogni vent’anni, solo quando sentiva di avere qualcosa da dire.
La bibliografia su di lui, vastissima e autorevole, i riconoscimenti internazionali culminati nel premio Nobel del ’75, le traduzioni in tutto il mondo, l’ininterrotto successo scolastico, l’enorme influenza esercitata sui poeti successivi, a cominciare da Luzi fino a Fabio Pusterla, fanno di Montale il poeta più importante del secolo scorso, ma non il più amato.
Gli nuoce forse, come nota Mengaldo, il suo essere poco italiano, senz’altro meno di Saba e Ungaretti e più vicino, come lui stesso riconosceva, a un filone di poesia metafisica anglosassone, da Browning a Eliot.
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