MONZA, STUDENTI SUICIDI/ Dov’è quell’abbraccio che ci strappa dal nulla?
Il suicidio di due giovani a scuola interroga ogni educatore. Interrompere l’avventura della vita è un dramma che dimentica una profonda verità: per qualcuno siamo preziosi

Caro direttore,
sono un cittadino monzese per di più insegnante di religione. Che dolore e che mistero la morte dei due giovani studenti di quinta superiore della medesima scuola, suicidi entrambi a distanza di quindici giorni l’uno dall’altro.
Dolore: “Per i genitori, sopravvivere ai propri figli è qualcosa di particolarmente straziante, […] la perdita di un figlio è come se fermasse il tempo: si apre una voragine che inghiotte il passato e anche il futuro. La morte, che si porta via il figlio, è uno schiaffo alla promessa, ai doni e ai sacrifici d’amore gioiosamente consegnati alla vita che abbiamo fatto nascere”. Così papa Francesco all’udienza generale del 17 giugno 2015 dedicata alla famiglia.
Anche i compagni sono tramortiti, e affiora trabordante la domanda: “Perché?”
Mistero: “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos” (Eraclito, frammento 45).
Quale profondità di sofferenza può spingere un giovane a interrompere così l’avventura che si sta affacciando al pieno della vita. Quale grido non ha trovato altro modo di esprimersi ed essere ascoltato che questo!
Non c’è analisi, discorso o parola buona che possa chiudere una ferita così grande.
Come Giobbe, a volte mi sembra di essere sopraffatto dal dolore mio e di chi vedo intorno a me – quanta umanità dolente incontriamo nelle aule di scuola –, e grido, e chiedo all’amico che potrebbe consolarmi: “Non potresti essere qui e basta? Tu mi saresti veramente di aiuto, amico mio, non cercando di venire in mio soccorso, Ma stando qui, proprio qui, accanto, A tenermi la mano”. (F. Hadjadj, Giobbe o la tortura dagli amici)
Sorprendentemente incroci lo sguardo di un collega cui, silenziosamente, si riempiono gli occhi di lacrime, o quello di un alunno di prima media che, alzando la mano, ti chiede: “Ma prof., veramente la nostra vita ha un senso?” E si riapre la partita: un senso, cioè il compimento di una promessa.
Ho bisogno di saperlo, di vederlo, di farne esperienza.
E in tutto questo l’emergere di una irriducibile verità: ci sei, amico mio, ci siamo e, proprio adesso, siamo voluti: per qualcuno siamo preziosi.
È un abbraccio misterioso che si fa presente nella nostra vita.
Vale la pena attaccarci e chiederlo di continuo. Solo così potremo essere strappati dal nulla che altrimenti inghiottirebbe le nostre povere giornate.
Grazie e con stima
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