L’uscita nelle sale cinematografiche di A complete unknown (la storia degli inizi di carriera di Bob Dylan) ha riportato alla ribalta e alla scoperta dei più giovani l’importanza del ruolo della musica folk nel panorama della società nord americana e poi nel mondo intero.
Come hanno sempre affermato quelli bravi, il fenomeno musicale del Novecento, il rock, è nato da un crogiuolo di incroci fra diverse esperienze e fonti originali: folk, blues, country, un pizzico del jazz di New Orleans. Incroci non solo musicali ma anche dettati dalla storia delle migrazioni.
Infatti, il folk ottocentesco proviene dalla tradizione irlandese delle ballate e delle gighe importate dai Padri Pellegrini, quando nel primo Seicento sbarcarono sulle coste occidentali del Bord America, bagnate dall’Oceano Atlantico, diventando nei decenni successivi il ceppo etnico tra i più importanti e influenti nella storia sociale, politica e religiosa (musica compresa) degli Stati Uniti d’America.
Il folk “western” bianco, incontrando il blues del popolo erede degli afroamericani schiavi, è diventato il simbolo della lotta contro la disuguaglianza, diventando un fenomeno mondiale grazie ad interpreti come Dylan, Baez, Seeger, e tutta la genìa della West Coast, a cavallo dei decenni ’60-’70.
Nella sponda “europea” dell’ Atlantico, il folk antenato di quello americano, ha vissuto le sue stagioni più interessanti, rimanendo circostanziato alla terra britannica, forse perché superato nella terra della perfida Albione, dal movimento musicale popolare e generazionale dello “skiffle” (altro incrocio di ritmi e canzoni dei cugini americani), che fu la scintilla dell’esplosione dell’era della “Swinging London” dei Beatles, dei Rolling Stones , dei Cream di Clapton e dei Them di Van Morrison, in rampa di lancio per la British Invasion verso l’altra parte dell’oceano.
Se pur stretti tra il rock’n roll a stelle e strisce e il beat isolàno, i gruppi e i solisti del folk britannico sviluppavano una ricetta musicale dove la tradizione troubadorica si apriva genialmente ad un crossover dai ritmi più diversi : dal rock al jazz, fino alla psichedelìa e al pop più commerciale di classifica, non abbandonando l’atmosfera acustica rinascimentale.
Ed è così che nella seconda metà degli anni ’60 dagli studi di registrazione londinesi finalmente riescono ad imporsi all’attenzione del pubblico giovanile band come Fairport Convention, Steeleye Span e Pentangle.
Se questi ultimi vivranno di un repertorio molto raffinato, i Fairport e gli Steeleye, per almeno un lustro vivranno una stagione formidabile grazie a una miscela sonora subito battezzata come Electric Folk e una schiera di cantanti e musicisti di altissimo livello: negli Steeleye Span, dove i cori a cappella spadroneggiano, la ribalta è tutta per la voce limpida e potente di Maddy Prior, mentre nei Fairport Convention la voce femminile è di Sandy Denny, coadiuvata da una sessionmen di prim’ordine, tra tutti leggende come Richard Thompson alle chitarre e Dave Swarbrick al violino.
Le due band negli anni successivi, pur cambiando formazioni, non hanno smesso di essere attive specialmente nei live, ma sono rimaste oggetto di culto per un pubblico affezionato ai primi successi di ben mezzo secolo fa.
A rivitalizzare il fenomeno del folk-rock britannico, nel 2008 arrivano quattro ventenni londinesi riuniti nel gruppo dei Mumford & Sons: con il loro primo album “Sigh no more” si impongono alla critica e nel 2012 vengono riconosciuti dal pubblico mondiale come fenomeno emergente, confermandosi con il pluri premiato “Babel”. Il loro suono è potente, trascinante fra cori armonicamente coinvolgenti, archi ben presenti, gran ritmo dettato dai tamburi, un nervoso banjo, una linea decisa di contrabbasso e un tappeto scintillante di tastiere e fisarmoniche.
Mentre per gli storici gruppi i punti di riferimento erano i menestrelli del Greenwich Village, il nuovo gruppo, pur non abiurando il folk roots dei circoli newyorkesi, si rivede nei ritmi new country dei più elettrici e scatenati Old Crow Medicine Show.
Winston Marshall, Ben Lovett, Ted Dwane e il frontman Marcus Mumford sembrano lanciati verso una carriera inarrestabile, ma nel 2015 e 2018 decidono di affrancarsi dai ritmi folk con un paio d’album che li fanno piombare nell’anonimato, deludendo il pubblico che li seguiva dall’inizio carriera.
La delusione è più cocente per Marcus Mumford, che oltre all’impronta folk, arrivando dalla famiglia fondatrice della Vineyard Church of England (un movimento di rinascita religiosa nella comunità protestante, nella cui sezione americana entrò il fervente convertito Bob Dylan di “Slow train coming”) scrive i testi pieni di afflato spirituale, aiutandosi da numerose citazioni bibliche, atmosfere ispirazionali che si perdono negli ultimi album banalmente rock. Di quel primo periodo basti ricordare brani come “Awake my soul”, “Sigh no more”, “Roll away your stone”, “I will wait” che come veri e propri gospel invitano ai cori e ai balli finali.
La band, quindi, si dà un periodo di pausa. Nel frattempo devono affrontare l’allontanamento di un componente il banjoista Winston Marshall per una triste polemica, vittima del politicamente corretto per aver apprezzato pubblicamente la lettura di un libro di un intellettuale di “destra”.
L’ormai trio, ritorna in questi giorni prepotentemente sul proscenio discografico (a cui seguirà un lungo tour mondiale, che toccherà anche l’Italia) affidandosi nuovamente alle origini folk: si tratta del nuovo album intitolato “Rushmere”. Affermano i Mumford: “È fantastico poter condividere nuova musica dopo così tanti anni (…) Sapevamo di voler pubblicare nuova musica, ma volevamo aspettare quella giusta. Non ci siamo mai sentiti in fretta, ma questa volta abbiamo percepito un’urgenza”.
Per questo, per recuperare l’ispirazione originale, sono tornati nei luoghi cari della giovinezza, a Rushmere appunto, il laghetto in un sobborgo di Londra, a Wimbledon, un po’ come la Liverpool beatlesiana, dove hanno iniziato a scrivere le loro prime canzoni.
E sotto la regìa del cinquantenne Dave Cobb, osannato produttore del nuovo country folk americano (Chris Stapleton, Anderson East, Brandy Carlile, Jason Isbel) in trasferta negli studi mitici di Nashville, respirando l’atmosfera leggendaria degli eroi del folk statunitense, il nuovo lavoro ci guadagna in entusiasmo nella compattezza del suono: inizio sprint con “Malibu”, ”Rushmere” e “Coraline”, continuando tra ballate acustiche (più chitarre, meno banjo) e tamburi rock di “Truth”, con il gusto omnipresente dell’impasto vocale e da quella solista potente e trascinante di Marcus, a sorreggere i ritornelli, per concludere il viaggio in piena atmosfera “west coast” con il manifesto identitario di “Carry on” (“Pur nell’oscurità del peccato originale, negli occhi di un bambino non c’è il male, cammina uomo, non ti fermare”) a confermare l’ispirazione letteraria, ancora rivolta ai contenuti più intensamente esistenziali degli inizi:
“In tutti i miei dubbi
In tutta la mia debolezza
Puoi guidarmi?
Rimango indietro
Ma come prometti
Mi aspetti
Sei tutto ciò che voglio
Sei tutto ciò che di cui ho bisogno
E troverò pace all’ombra delle tue ali”
(da “Malibu”)
“Illuminami, sono perso nel buio (…)
Ciò che è perduto è andato e sepolto nel profondo,
prendi coraggio e lascialo andare.
Non mentire a te stesso. (…)
C’è bellezza nel dolore
Non mentire a te stesso.”
(da “Rushmere”)
Agli ansiosi fan, non resta che l’attesa per ritornare ad applaudirli con entusiasmo nel prossimo tour mondiale.
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