ANTEPRIMA/ Il genio di Muti nell’Otello, dopo quarant’anni a Roma

- Massimo Bernardini

La cura dell'espressività dal particolare all'insieme di un grande Maestro alle prese con il capolavoro verdiano atteso al Teatro dell'Opera di Roma dal '69. Il racconto delle prove, in anteprima per ilsussidiario.net, di MASSIMO BERNARDINI

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Roma dal ’69 sta aspettando Otello, sta aspettando Verdi, sta aspettando Riccardo Muti. Ed ora eccolo qui, in un clima stupendo, profiquo, di lavoro tenace.
L’Orchestra del Teatro dell’Opera non sono i Wiener, né la Chicago, né la New York Philarmonic o la Scala di qualche tempo fa. Ma Muti vi sta spendendo grandi energie e i risultati si vedono.
Sorseggiamo in prova un quarto atto meraviglioso, dove riconosciamo il fraseggio verdiano di Muti: denso, importante, virile ma anche intimo (Il salice), femminile. L’Ave Maria è un segreto del cuore, quello dell’affidarsi totale e silenzioso. Quei volumi controllati, quella finezza di tratto e di fraseggio ne sono la prova. Il dettaglio della cavata dei contrabbassi solisti, poi, è per Muti essenza e non dettaglio, particolare che lascia il segno, che va curato: «Misterioso, pesante…», indica ai professori che hai sentito provare e riprovare in camerino fino a poco fa.
Poche battute: il tutto nel frammento. Un’orchestra italiana, un teatro italiano. Muti che gli si regala e riporta Otello nella capitale dopo 40 anni. Una roba vera, importante, che in questo Paese non si valuta mai abbastanza. Muti che fa crescere, che spinge, che travolge i limiti della compagine romana in una tensione che migliora tutti.
Tensione e sorrisi in prova, come per il toc toc alla porta oggetto di una gustosa gag col rumorista, che trepidante si affaccia in proscenio. Poi il lavoro sui cantanti, quasi gli stessi della prima estiva a Salisburgo coi Wiener («però certe frasi le fanno meglio qui a Roma», dice pieno di orgoglio), da vero regista dell’opera com’è e dovrebbe essere sempre un direttore. Lavora sulla parola, sull’espressività della sillaba, del verso, della scena intera.
Saggio di autorevolezza e di tranquilla elettricità, lavoro di bulino che plasma e fa crescere, dipanando le ragioni di Boito e Verdi per tutti gli artisti coinvolti. Otello Muti lo possiede profondamente: è la quarta volta, l’ha studiato a lungo, ne ha soppesato ogni gesto, ogni dettaglio. Così lo racconta, lo spiega, lo smonta e il canto si fa più cosciente, la frase più consapevole.
L’abbiamo visto tante volte Muti concertatore al lavoro, eppure ogni volta è un’esperienza. Pazienza e rigore, tensione e confidenza. Mai un passaggio tirato via, mai una trivialità, mai un gesto di routine. Esigere sempre il massimo, non accontentarsi ma dare senso a ogni nota, e trovarne l’anima nel contesto della scrittura di un genio come Verdi. Cuore e pensiero, tensione e malinconia. «Ah – ti dice Muti fra le righe – il vecchio maestro quanto ne sapeva dell’uomo, del suo cuore misterioso e doppio, del suo mistero». E quel che Muti ha afferrato l’ha afferrato per sempre e lo mette a disposizione, ogni volta un po’ di più.
Chissà se noi contemporanei ci rendiamo conto del dono e del carisma di questo grande direttore italiano. Certo il mondo, che lo vuole da Tokyo a New York, lo sa.
Il ministro Bondi, che l’altra sera era in visita in teatro silenzioso edattento, non può non averlo colto. Si tenga stretto il maestro ministro, lei che stima la bellezza, gli metta a disposizione ogni strumento. Se lo tenga caro prima che si scoraggi, si stufi di noi e l’Italia perda così l’ultimo grande che la nostra tradizione musicale ha generato. Sarebbe imperdonabile. Dopo le repliche romane (4, 6, 9, 11, 13, 14 dicembre), Muti a gennaio va a Chicago. Il contratto con la prestigiosa orchestra prevede due mesi e mezzo all’anno laggiù, a casa di Obama. Speriamo che il presidente non se ne accorga, speriamo lo lasci tornare, speriamo che Muti non ci provi troppo gusto. A Chicago fa freddo, è la nostra unica chance.







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