ZEN CIRCUS/ “Nati per subire”, il battesimo milanese del nuovo tour

- La Redazione

"Nati per subire" è il nuovo album dei toscani folk-punk-rockers Zen Circus. Un deciso passo avanti nel percorso del terzetto, artefice di un’inarrestabile ascesa. GIUSEPPE CIOTTA

andreaappinor400 Foto di Monelle Chiti

“Nati per subire” è il nuovo album dei toscani folk-punk-rockers Zen Circus, titolo già annunciato dall’autore e chitarrista/cantante Andrea Appino nel nostro ultimo incontro, la scorsa primavera. Esordito al n° 31 della classifica FIMI e stabilmente nei top 100, è un deciso passo avanti nel percorso del terzetto, artefice di un’inarrestabile e sudatissima ascesa creativa e di pubblico. Neanche il tempo di presentarlo che i nostri, da sempre live act di tutto rispetto, s’imbarcano nell’ennesimo tour. Quale modo migliore per parlare del nuovo lavoro andando a trovarli nella prima data ufficiale al Magnolia di Milano?

L’aereo che da Catania mi porta nel capoluogo lombardo è in ritardo e – giunto lì – i banchi di nebbia che mi separano dall’idroscalo non aiutano la mia puntualità, ma il sempre signore Andrea Appino m’accoglie a braccia aperte nel backstage del locale: “Il soundcheck sembrava non finir mai, ma stiamo ancora prendendo le misure per il nuovo tour: in fondo, questa sarà la prima vera data ufficiale, dopo quella di partenza in casa, a Livorno”.

“Le date in casa, soprattutto all’inizio d’una tournèe, non fanno mai testo” mi conferma il bassista Ufo, che nel frattempo aveva sfogliato le stampe degli articoli che finora – grazie a IlSussidiario.net – ho potuto dedicar loro: “Subito in archivio, queste!” si congeda Andrea, diretto in albergo. Continua Ufo: “Suonare di fronte ai propri amici e familiari è sempre particolare, sei ovviamente un po’ ingessato: se aggiungi che si trattava pure della prima data del tour – con le esecuzioni live dei nuovi brani – allora è come se sentissi un motore che deve ancora carburare, ma ce l’abbiamo fatta”.

Apre lo show l’interessante quartetto perugino Fast Animals & Slow Kids, con un cantante istrione dalla vocalità notevole e un chitarrista dal sound personale (che, in Italia, sono tanta roba); prendete i primi Arctic Monkeys, sbandateli contro i Mudhoney, aggiungete dei testi in italiano fintamente demenziali e ne avrete idea, ma meglio vederli dal vivo: non lasciano indifferenti.

Nel paese che sembra una scarpa è l’introduzione amara del nuovo disco degli Zen Circus e ne apre anche lo show: una melodia sofferente su cui l’io narrante prende posizione verso i malanni della nazione in cui vive, la nostra. Su disco, la produzione artistica – in tutto e per tutto dei tre – è più brillante, colorata, meno arcigna del precedente Andate tutti affanculo, il primo tutto in italiano, che sdoganò la band presso coloro che ne sconoscevano i trascorsi. Quel memorabile album permise un tour da record, lungo e partecipato, con circa 170 date. Numeri che verranno bissati per questo settimo disco, stando alla calca di fronte al palco e con tanti ragazzi che non riusciranno ad entrare, per un sold out annunciato.

Proprio alla produzione precedente quell’album si ricollega musicalmente L’amorale: testo al vetriolo – politicamente scorretto – con ritornello bubblegum che s’impone subito alla memoria, come testimoniano i cori sotto al palco (pare sia uscita un anno fa, tale è la precisione con cui i fan la cantano): con lucreziana memoria, è un indorare la pillola per far scendere giù anche i contenuti più amari. Le chitarre scintillano e il tema che conducono è semplice ed efficace.

Contenuti, dicevamo: nel nuovo cd ce n’è a iosa. La title-track, ad esempio, con un incipit post-punk diretto dalla chitarra di Appino. Anche qui, su una musica fresca e briosa, le parole ne bilanciano i colori con un testo spacca-fegato. Ecco il primo tratto distintivo del nuovo lavoro: all’insopprimibile urgenza comunicativa del precedente, dove tutto s’intersecava graniticamente – parole e musica – qui le parole più amare vengono supportate da musiche multicolori. Il secondo tratto sono le linee melodiche della chitarra di Appino, con un gusto che muove dal post-punk fino a fondersi in uno stile misurato e personale: dire molto con “poco” è sinonimo di capacità comunicativa.

Atto secondo è una grandissima canzone – a livello di scrittura, interpretazione e sound – e lo pensano anche i coinvolti astanti: un giro di chitarra acustica degno del Dylan di Another side of; un testo che può farti ridere o piangere (quanti sono in grado di toccare gli opposti zenit dell’emozione nello stesso pezzo?); un ritornello da cantare e meditare; il consueto la-la-la-la che, in un’orgia emozionale collettiva, aveva saputo unire tutti gli ascoltatori degli Zen fin da pezzi come Figlio di Puttana o la stessa Andate tutti affanculo, assunti stasera allo status d’inni; un finale aperto, molto tex-mex, brilla sia qui che su disco.

I qualunquisti muove un ulteriore stacco fra questo e l’album di prima: laddove a dominare erano gli umori acustici, qui c’è un’elettricità diffusa e cristallina, con timbri che rimandano a certe cose di Television o Minutemen; un testo “popolare” e in fondo positivo, soprattutto nell’apertura corale del ritornello che – in un pogo scalmanato e mai violento – viene fatto proprio dal pubblico.

L’amara consapevolezza del presente torna nella ballata La democrazia semplicemente non funziona, con la partecipazione di Giorgio Canali nel cd e della gente qui sotto al palco.
La band ha l’intelligenza di non sciorinare il nuovo album in blocco, ma d’alternarlo ai pezzi storici e ultra-carichi, tanto della foga della band quanto del pubblico entusiasta: ecco, quindi, Vent’anni; Punk lullaby; L’egoista; Vecchi senz’esperienza…

Il mattino ha l’oro in bocca riprende sonorità no-wave, simili a quelle usate da Appino nella produzione artistica dei suoi pupilli Criminal Jokers per il loro cd. Difficile staccarsi da un pezzo così, con una chiusa effettistica emotiva (degna dei Mogwai) che – su disco – sfocia nei violini che ne perpetuano il tema. Dopo l’incipit meditabondo, arriva una botta di groove che sconquassa la platea e propone un’ulteriore cifra dell’album: i giri di basso di Ufo, novello Krist Novoselic (Nirvana) o Kim Deal (Pixies), tutta gente che sapeva unire senso del ritmo e melodie semplici e lineari, che consentono letteralmente alle canzoni di spiccare il volo.

Puntellate con arguzia dai pulsanti tamburi di Karim, oggi più che mai le linee di basso di Ufo sono più vicine alle pennellate melodiche d’un chitarrista che al lavoro oscuro d’un suonatore delle quattro corde: “Mi vien naturale pensare al basso in questo modo nel lavoro d’insieme nel gruppo, perché siam solo in tre e ognuno ha abbastanza spazio da riempire e non c’è il rischio di calpestarsi i piedi o invadere le trame sonore dell’altro. È qualcosa d’improbabile in una band con due chitarre, tastiere o strumenti d’espressione d’altro tipo: lì il basso – logicamente – è relegato al suo ruolo originario, mentre negli Zen sono libero d’occuparmi di parti di cui – in formazioni di quel tipo – s’occupano altri strumenti” chiosa Ufo. La fisicità di questi nuovi brani è riflessa in quella del pubblico, in un rimbalzarsi addosso continuo. Franco è l’ennesimo dipinto d’attualità di Appino, su alcune tipicità umane decisamente italiane: uno spoken-word su una base che pare uscita da una session di Exile on main street dei Rolling Stones.


Milanesi al mare
– ironica e veritiera – dice tutto già dal titolo, ma stupisce per l’inedito sapore “da sotto l’ombrellone”: nel ritornello Appino par quasi far verso alla tradizione italiana anni ’60 dei pezzi da spiaggia, un post-moderno Edoardo Vianello in salsa punk. Dalla scomposta e allegra reazione del pubblico, è già un classico, come Ragazzo eroe: la chiamata all’azione per salvare il belpaese dai suoi mali reconditi eppur manifesti. Appino chiama tutti a raccolta, perché di tutti c’è bisogno se tutti s’allontanano pensandosi diversi quando – oltre la superficie – s’è simili. Nessuna retorica o salmodiare da portavoce generazionale: solo una positività contagiosa che nasce dall’esperienza consapevole di se stessi e di chi s’incontra lungo la strada.

Cattivo pagatore è un’altra polaroid dolceamara d’italianità contemporanea: alla fine di essa, e del disco, si ha l’impressione che gli Zen Circus abbiano voluto racchiudere fra i due involucri più duri e tristi, la prima e l’ultima composizione, le altre più variopinte canzoni. Un’ideale cerchio che le abbracci tutte, concluso con un pezzo che stupisce per freschezza compositiva e un arrangiamento mirabile, dove il basso di Ufo continua a determinare gli umori. Gli archi di Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35 ed ex Afterhours) presente all’inizio dell’album e qua e là nel lavoro – come Francesco Motta dei Criminal Jokers, fra i tanti amici ospiti – lo chiudono mestamente, fino a quello che pare un colpo di riverbero squassante che sembra svegliarci tutti.

Il concerto al Magnolia, frattanto, s’è concluso degnamente sulle note di alcuni classici del gruppo, cantati a squarciagola anche da ragazzi che allora erano ancora in età scolare: segno che le ristampe della discografia della band erano necessarie, se hanno portato allo scoperto gioielli come Fino a spaccarti due o tre denti o I bambini sono pazzi.

Dopo lo show, saluto la band e confesso loro che era dai tempi del liceo che non pogavo così. Andrea ne ride soddisfatto: “Sì, stasera è andata meglio e il motore comincia ad ingranare. Abbiamo avuto qualche problemino tipico delle prime date, ma siamo contenti”. Ci diamo appuntamento per la data che a marzo terranno a Catania. Karim indica la mia t-shirt dei Ramones – fra i suoi preferiti di sempre – e gli dico che stavo proprio pensando agli Zen mentre riguardavo End of the century – splendido biopic sulla storia dei padrini del punk – prima di partire per Milano: la sinergia fra i componenti, tutti dotati di una personalità peculiare e dirompente; le loro scenette sul palco e i botta e risposta fra loro e il pubblico; la capacità tutta istintiva di risultare veri sempre e comunque, solo sulla base della musica e senza strategie costruite; la consapevolezza d’essere un tutt’uno inscindibile.

Gli Zen Circus vanno avanti per la loro – brillante – strada, tirando sul carro idealmente e senza esclusioni tutti quelli che tendono una mano appassionati: niente pose e sorrisi ammiccanti, ma un grande senso di sinergia e partecipazione fra loro stessi, il pubblico, gli addetti ai lavori. Un esempio per tutti? Sicuramente, ma soprattutto gli Zen Circus sono un esempio per se stessi, oggi più che mai.





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