Pubblichiamo un estrattto de l’Introduzione “Sussurrando tra me e me” di John Waters all’ultimo libro di Paolo Vites, “Un sentiero verso le stelle. Sulla strada con Bob Dylan (Pacini Editore, 205 pagine, 18 euro)”. una sorta di romanzo rock in cui l’autore racconta quasi trent’anni di concerti di Bob Dylan a cui ha assistito. Immagini di un mondo che sta scomparendo, quello del grande rock che ha segnato gli ultimi decenni della cultura popolare.
In circostanze normali non mi spingerei mai a dichiarare una qualsiasi delle canzoni di Bob Dylan come la sua migliore. Anche con una delle più ovvie candidate, questa frase rischierebbe di essere troppo grossa, sebbene in una dozzina o più di casi questo potrebbe anche essere plausibile. Ma se mi puntaste una pistola alla tempia pretendendo che io nomini la sua migliore canzone, promettendo di uccidermi in caso di errore, sento che avrei qualche chance di sopravvivenza se nominassi Mama, You Been on My Mind.
La cosa strana è che non riesco a considerarla una canzone. È qualcosa di più profondo. Ovviamente, ci sono versioni che la trasformano in una canzone, inclusi alcuni orrendi duetti che Dylan ha fatto con Joan Baez. Ma esiste una versione in cui la canzone vive in modo diverso, come qualcosa in più rispetto alla somma delle sue parti, come qualcosa di così speciale che viene da chiedersi come mai la troviamo solo sulla Bootleg Series in una versione apparentemente scartata, come una tra le tante interessanti tracce che sono state lasciate da parte per questa o quella ragione, o per un motivo che nessuno ricordi.
La prima volta che l’ho sentita mi è balzata addosso, e quando mi sono ritrovato a riascoltarla ancora e ancora, ignorando tutto il resto presente su quella che rimane infatti un’ottima collezione, mi sono sorpreso a farmi questa domanda, a chiedermi come mai Dylan l’avesse semplicemente lasciata così e non fosse mai tornato a ciò che è vero e grezzo in questa canzone, non avesse mai cercato di catturarlo in una registrazione formale, ufficiale. (…)
Se la cercate su YouTube, trovate parecchia gente che la canta senza dirvi che è stata scritta da Dylan. Trovate persone che la cantano così male che viene da chiedersi perché si siano dati il disturbo di cantarla. Trovate Dylan e la Baez che allegramente la massacrano. Trovate una versione di Johnny Cash che inspiegabilmente ne cambia le parole, incluso il verso iniziale, senza dubbio il migliore di tutta la musica popolare, per ragioni non conosciute ma degne di essere investigate. Ma se volete sentire Dylan che la canta come deve essere cantata, dovete prendervi le Bootleg Series e prepararvi a non ascoltare altro per una settimana.
Dylan ha scritto, registrato e pubblicato un sacco di canzoni. Molte di queste vengono circondate da storie o frasi o enigmi o semplicemente da abili nessi che ti lasciano stupito di fronte all’immenso senso di ironia che alberga in quest’uomo, in questo poeta, in questo cercatore, in questo burlone. Da mezzo secolo sta sul crinale del mondo guardandovi dentro, riflettendo o rifrangendo le cose che colpiscono il suo occhio, gettandocele in modi che suggeriscono sempre una pugnalata alla veridicità/sincerità, quindi proseguendo oltre come incerto riguardo ciò che ha fatto. Quasi nessuna delle sue canzoni è completata, e alcune sono appena abbozzate. Altre sembrano continuare all’infinito, altre ancora finire prima che inizi la caccia, contenendo “troppo e non abbastanza”, per dirla con parole sue, verniciando appena di parole il soggetto come nel bisogno di trasmetterci l’inadeguatezza di una descrizione.
Ma questa canzone, questa dichiarazione, questo enigma, questo scherzo, ha qualcosa in più rispetto a (quasi tutte?) le altre. In essa c’è Dylan in una maniera che (molte del)le altre non mostrano. Dylan è un cantastorie, un creatore: non c’è alcun bisogno che sia presente nelle sue canzoni, non c’è ragione per cui immaginiamo di averlo intravisto in alcuna o in tutto il suo repertorio. In qualsiasi momento potrebbe essere lui come potrebbe non esserlo, e probabilmente non lo è.
C’è chiaramente un personaggio in questa canzone, ma non voglio suggerire che questo sia Dylan stesso. Potrebbe esserlo, ma questo non è decisivo Chiunque abbia letto il suo libro autobiografico Chronicle saprà che gli piace seminare false tracce e mandare all’aria le comuni certezze. Ma qui c’è una verità/lealtà difficile da evitare. La sua voce è lì, vicina, come raramente accade. È come se si fosse fermato per farsi vero, anche solo per pochi istanti. La canzone, se può essere chiamata una canzone, è grande proprio perché non è una canzone. Non c’è alcun appiglio reale cui nascondersi dietro. Non c’è un ritornello, solo la ripetizione del verso che dà il titolo alla canzone. Inoltre, la canzone stessa si occupa di generare tracce false, mostrando la duplicità che giace dietro la parola e la nota e il volto e il nome. In fondo, come ha ripetuto più volte, nessuno ha un nome.
Allo stesso tempo la canzone, che non è una canzone, è, in un altro senso, banale. È una sorta di canzone d’amore, superficialmente si potrebbe dire un ripensamento a perdere su una relazione finita qualche tempo prima. Tranne il fatto che non è a perdere. E non è un ripensamento. È un grido che sorge dal profondo del cuore di uno che ha amato troppo e ha perso non solo l’amore, ma anche la capacità di guardare in faccia quella perdita. È la supplica di qualcuno cui la vita si è incastrata per la delusione di un desiderio e l’incontro con il suo limite. È una canzone che racconta di come il desiderio umano sia in grado di lasciarti zoppo se lo dirigi verso l’obiettivo sbagliato. La canzone non dice tutto questo, ma lo mostra. (…)
L’indizio si trova nei primi versi, forse, come io penso, i più grandi versi di apertura (e qui non c’è bisogno che mi si punti la pistola) nella storia delle canzoni popolari che non sono popolari. Ditelo nel modo che preferite: “Maybe it’s the color of the sun cut flat / And coverin’ the crossroads I’m standin’ at” [“Forse è il colore del sole che si è tagliato piatto / E che copre il bivio in cui mi trovo”]. (…)
Sta parlando a qualcuno, anche se per ora non sappiamo a chi. Potrebbe parlare a me, a te, a chi ascolta, ma le parole sono troppo centrate su loro stesse. Suggeriscono una storia di qualche tipo vissuta con qualcuno, forse una storia di momenti analoghi di stranezza e bellezza celebrati con qualcuno. La frase è troppo sconvolgente e troppo particolare per aprire una canzone intesa a parlare modo diretto all’ascoltatore. Non parli in questo modo al primo che incontri per strada, nemmeno se sei Bob Dylan, anzi, forse proprio perché sei Bob Dylan. No, chi ascolta avverte immediatamente di essere messo a parte di qualcosa di molto intimo, quasi stesse origliando, di un momento profondo e personale di introspezione o ricordo. Quest’uomo sembra parlare fra sé, o forse parla a se stesso per parlare a qualcuno che giace infondo alla sua memoria e immaginazione. E allo stesso tempo, nei meandri di quella nostra capacità di ascolto che immediatamente percepisce le cose come stanno, cogliamo subito che questa persona – chiunque siano questo lui o questa lei – grava pesantemente sulla sua anima. (…)
Non possiamo far altro che scendere al fondo della sua confessione, dentro la disperazione che si aspetta. Ciò che era cominciato come una supplica ora diventa una consapevolezza quasi certa che la loro vita insieme è storia passata. “Sto solo sussurrando a me stesso, così che non possa far finta di non sapere / cara, che sei nella mia mente”.
Stavolta il verso finale è al tempo presente: “tu SEI nella mia mente”. Ed è il vero titolo della canzone. Non è per niente casuale.
Tu sei. Nei miei pensieri. Tu sarai sempre. Nei miei pensieri.
“Sussurrare” è proprio il termine adatto. Tranne il fatto che non sta sussurrando. Sta facendo le prove per sussurrare. Sta attraversando tutti i sentimenti che trova in se stesso, in tutta la loro intensità e pena, seguendoli per vedere dove lo conducano, valutando poi come stanno le cose dopo che tutto sarà riconosciuto e compreso. E allo stesso tempo sta sfidando l’oggetto della sua supplica, come se lei lo stesse ascoltando in quel preciso momento. Con un po’ di attenzione, però, capiamo presto che questa è la prova generale di uno spettacolo che verrà cancellato.
L’armonica fa la sua comparsa, solitaria come un arcobaleno invisibile. Le viene concesso un piccolo spazio in cui concentrare i sentimenti cui finora si è solo accennato. Completa il significato della canzone in un modo che non poteva essere espresso altrimenti.
Ma quando la voce ritorna, lo fa con una nuova determinazione. Dopo aver cantato il requiem del loro amore, si prepara a voltarsi per affrontare la realtà senza di esso. Lo fa sempre alla sua maniera, scivolando nella recriminazione. Vuole farle pensare a cosa si è lasciata scappare dalle mani. Si rende conto di quello che ha buttato via? Dal canto suo, si è finalmente accorto che la sua messa in scena ha fallito, che la storia è troppo pensante e lui attaccato tenacemente perché ne possa venire qualcosa. Un filo di amarezza rimane, ma è leggermente percepibile sotto la sua passione, che per definizione è una forma di adulazione. Non è qualcosa di tossico, o almeno non troppo.
“Quanto ti sveglierai domattina, piccola, guardati allo specchio / Sai che non sarò di fianco a te, che non sarò lì vicino”.
Riflettendoci in modo maturo, affermare che questa sia la migliore canzone di Dylan sarebbe senza dubbio una ridicola esagerazione. Eppure potrebbe esserlo, per via di quel qualcosa che è presente oltre la canzone, oltre l’idea di una performance. Succede sempre qualcos’altro, più o meno, nel momento in cui una canzone viene cantata. Ma qui succede in modo compiuto. Questo qualcosa è il modo in cui la canzone, oltre che essere cantata, cerca di testimoniare l’intenzione dietro se stessa, persuadendo o forzando l’interprete, che sa di cosa si stia trattando, per comunicare il suo significato. (…)
Chiunque ha una canzone in sé, se non da scrivere, magari almeno da cantare. Ciascuno di noi potrebbe avere la possibilità di prendere una canzone che non è mai sembrata una gran canzone e renderla tale, per tre o quattro minuti, trasformando qualcosa che era sembrato banale in qualcosa di magistrale e vero, ben oltre parole e melodia.
Gli autori di canzoni, qualche volta, ottengono proprio questo. Molto spesso invece no. Scrivono qualcosa di buono o grande o promettente-ma-non-ancora-compiuto, dando poi il meglio per elevarlo al di sopra di quella linea che nessuno può vedere. A volte, invece, si presenta qualcuno che trova nella canzone qualcosa che l’autore stesso non immaginava neanche ci fosse.
In questa versione di Mama, You Been on My Mind qualcosa di diverso e profondamente inusuale sta accadendo: Dylan sta cantando la canzone proprio come era nata per essere cantata ma, potremmo dire, malgrado se stesso. Tutte le altre versioni che ha fatto sono state solo un diversivo. In questa versione siamo in grado di comprendere il motivo per cui questa canzone è stata scritta, perché capiamo che è impossibile comporre una canzone come questa senza aver vissuto quello di cui si parla.
Dylan ci è andato, a quell’incrocio dove la canzone è stata concepita. E sembra che l’idea di cantare una canzone come questa gli sia semplicemente balenata in testa, e lui, pur consapevole della potenziale gravità, ha deciso, d’impulso, di lasciarla accadere, di lasciare che la canzone “cantasse” di lui, ovvero della sua disposizione d’animo e del suo intento nello scriverla, per rivivere il momento della scrittura questa volta da cantante, per lasciare che la canzone sveli in lui i sentimenti da cui è sorta. Ha ripercorso il momento della creazione della canzone ed è rimasto fino alla fine, inseguendo tutti i circoli di involuzione da cui è emersa, immedesimandosi in ogni verso senza sfuggirgli. E ha compiuto qualcosa che non può essere migliorato, che non può essere ripetuto. Non sorprende, quindi, che da subito abbia iniziato a maltrattare la canzone con distratta irriverenza: perché, chi avrebbe potuto trovarci qualcos’altro?
Proprio alla fine della registrazione, quando gli accordi rallentano per chiudere, si sente un colpo di tosse che è troppo vicino alle note conclusive per poter essere rimosso dalla registrazione senza lasciare una piccola cicatrice. Potrebbe essere qualcuno in sala di registrazione con Dylan, o Dylan stesso. In ogni caso, ci sta, perché suona esattamente come uno stop improvviso dovrebbe suonare se gli stop improvvisi fossero ammessi nel business della musica.