AEROSMITH/ “Music from another dimension”: l’hard rock che non graffia più

- La Redazione

Esce “Music from another dimension”, il nuovo disco della storica band di hard rock. Ma la delusione è molta. Un compitino fatto senza avere più emozioni. La recensione di LUCA FRANCESCHINI

aerosmith_R439 Foto Infophoto

“Music from another dimension” è il nuovo album degli Aerosmith, il numero quattordici della loro produzione ed è stato fortemente voluto, probabilmente obbligato dalla loro casa discografica, il colosso Sony/Columbia. Va da sé che è una provocazione, non avendo il sottoscritto nessun dato di realtà che possa giustificare questa tesi. Eccetto il contenuto del disco stesso, ovviamente. Arriva a distanza di 11 anni (undici!) dall’ultimo, quasi inascoltabile, “Just push play” e a otto dalla piacevole raccolta di cover blues “Honkin on Bobo”: la band americana si era persa per strada in un mare di infortuni fisici e dissapori interni nel triste sottofondo dello scorrere inesorabile del tempo. 

Non che ci sia da ritenerlo scandaloso: gli ex “Toxic twins” Tyler/Perry e i neanche troppo comprimari Kramer/Whitford erano già usciti alla benissimo da un’altra grande crisi, quella dei primi anni ottanta, con lo split della formazione originale e un album orrendo come “Rockin’ in a hard place” che davvero aveva fatto pensare alla fine di un act che aveva travolto il mercato musicale solo un decennio prima. La cura di Desmond Child, autentico re Mida della consolle, che in quegli anni stava contribuendo a rendere miliardari i Bon Jovi e che avrebbe di lì a poco salvato dal baratro anche il buon vecchio Alice Cooper, si rivelò più forte di ogni sventura: lavori come “Permanent Vacation” e soprattutto “Pump” regalarono al quartetto di Boston una seconda giovinezza, riaprirono loro le porte degli stadi, rimpinguarono notevolmente i loro già cospicui conti in banca ma, dall’altra parte, diedero al gruppo un’immagine un po’ troppo patinata e radiofonica, inaugurando una nuova fase del loro percorso artistico. Una fase in cui, nonostante album dall’indiscussa qualità, gli Aerosmith divennero noti anche a chi normalmente era rimasto estraneo al calderone del rock. Grazie a singoli come “Rag Doll”, “Love in an Elevator” o ancora di più con i tormentoni “Crazy”, “Cryin’” e “Living on the edge (per non parlare della tremenda cover di “I don’t wanna miss a thing”, di Diane Warren), gli Aerosmith divennero a tutti gli effetti “commerciali”. “Just push play” pose fine a tutto questo: un disco che voleva senza dubbio sperimentare e innovare, giocando col pop e con l’elettronica ma che falliva miseramente nei risultati. Fine della storia.
In Europa la band non si è più vista (giusto una fugace apparizione all’Heineken Jammin’ Festival del 2010), in America hanno continuato a riempire le arene, anche se ormai più sull’onda della celebrazione del passato, piuttosto che per la voglia di proporre nuove tappe del proprio percorso. E poi le telenovele infinite: Tyler che cade dal palco, Tyler che deve fermarsi, Tyler che litiga con Perry, Tyler che se ne va dal gruppo, Tyler richiamato a forza perché i promoter senza di lui non avrebbero investito un soldo nel gruppo, Tyler e American Idol… e potremmo continuare all’infinito. 

La verità è che i quattro sono invecchiati, hanno perso lo smalto e avrebbero dovuto lasciare perdere tutto da una decina di anni. L’avessero fatto, nessuno gliel’avrebbe rimproverato. Invece, complice probabilmente una Columbia poco intenzionata a perdere una delle sue principali fonti di introito, dopo un tira e molla durato parecchi anni, tra annunci, smentite e posticipi vari, finalmente “Music from another dimension” è pronto ad invadere gli scaffali dei negozi. O i server dei vostri pc. Fate voi. A conti fatti la cosa più appariscente di questo album è la copertina fumettistica, che appare tra l’altro come un grande plagio di “News of the world” dei Queen. 
Il contenuto è sinceramente molto meno interessante. Per carità, l’attacco di “Luv XXX” e della successiva “Oh Yeah” (quest’ultima già presentata dal vivo) è roboante e suona davvero “old school”, tanto che quando Steven Tyler inizia a cantare pare che proprio nulla sia cambiato. Dietro alla consolle è stato persino chiamato Jack Douglas, lo storico produttore della band fino al 1979 (ma si erano già ritrovati ai tempi di “Honkin’ on Bobo”), quasi a dare un’ulteriore segnale che tutto doveva tornare come ai vecchi tempi. La ricetta doveva essere semplice: via i lustrini, via gli orpelli, via le melodie eccessivamente zuccherose, si torna a picchiare duro come ai tempi di “Toys in the attic”. Ha funzionato? Apparentemente sì. Come dicevo, l’impatto iniziale è tosto ma basta poco per accorgersi che qualcosa non va. Il tutto suona un po’ troppo irreale, un po’ come guardare una ricostruzione del Partenone: potrà anche essere messo meglio dell’originale, ma l’effetto straniante si nota. Fuor di metafora, i pezzi spaccano ma suonano costruiti a tavolino, mancano di freschezza e per questo annoiano. Se i primi due possono ancora funzionare, “Beautiful” ha un ritornello fortemente rallentato che contrasta con una strofa dal piglio aggressivo ma un po’ troppo moderno. Se pensiamo che Tyler, intervistato da Rolling Stone, l’ha annoverata tra i brani migliori del lavoro, stiamo freschi. Probabilmente pensava alla figlia Mia, presente come ospite sui cori, ma non è proprio un dato che serve a risollevare un brano più che trascurabile. “Tell me” è una ballata insipida come poche mentre “Out go the lights”, col suo giro hard blues e il cantato che sembra uscito direttamente da “Rocks”, riesce nell’impresa di coinvolgere. 
Peccato che il chorus non mantenga del tutto le promesse, anche se il lungo assolo di Joe Perry nel finale riesce ampiamente a farsi perdonare (a patto che ci si dimentichi degli orrendi coretti in sottofondo). Alla fine risulterà l’episodio più bello, assieme ad una marcissima “Freedom Fighter”, che sembra uscita dal songbook dei Motorhead e che vede dietro al microfono un inatteso Johnny Depp (il quale, per inteso, non se la cava affatto male). Un altro buon momento è “Legendary child”, più sulla linea delle cose degli anni ’90, e che risulterebbe ottima se non suonasse troppo manierista. 

Il resto, dispiace dirlo, è poca cosa. Come dispiace il fatto che, nonostante l’attitudine “back to the roots”, i nostri non abbiano esitato ad infilare qualche ballata strappalacrime, giusto per far impazzire le classifiche e tentare di catturare le figlie di quelle donne che anni fa piangevano per “Angel” o “What it takes”, prima che si fiondino a capofitto sul nuovo disco dei “One Direction”. Non vorrei essere io a guastare le aspettative, ma mi sa proprio che non sarà un compito facile: “What could have been love” piacerà solo a chi non abbia mai sentito nessun hit single di questa band. Decisamente brutta è invece “Can’t stop lovin’ you”, cantata insieme a quella che il comunicato stampa della Sony definisce “la stella del country Carrie Underwood” ma che per il sottoscritto è semplicemente la vincitrice di una stagione qualunque di “American Idol”. D’accordo, ha venduto milioni di dischi, d’accordo sono io che ho la puzza sotto il naso. Eppure, non so proprio che dire, questa cosa non riesco a mandarla giù. 

In definitiva, un disco di cui non sentivamo la mancanza. Senza dubbio i fan più accaniti lo compreranno e molti troveranno motivi per apprezzarlo. Non li biasimo e li capisco perfettamente. Dal mio punto di vista, questo è un disco di cui a breve non si ricorderà più nessuno, frutto delle logiche di un mercato che non si è ancora accorto di essere allo stadio terminale. Ai più giovani consiglio di non farsi attirare dalle lucciole della pubblicità, ma di puntare diritti nella sezione delle offerte di qualunque negozio di musica, dove con pochi euro potranno portarsi a casa una copia di “Live Bootleg”, il disco dal vivo che quando fu pubblicato, nel 1978, riuscì a dare qualche lezioncina anche ai Rolling Stones. 

 

(Luca Franceschini)





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