ANDREW BIRD/ Il concerto di Milano: magia e poesia della vecchia America
Si è esibito a Milano qualche sera fa per un unico appuntamento italiano l’eclettico polistrumentista Andrew Bird, con la sua poesia old time. La recensione di SILVIA PELLIZZON

In una Milano sempre più frenetica e con sempre meno posti che ospitano buona musica dal vivo, quello di qualche sera fa è stato un evento da cogliere al volo, incastrato tra i vari appuntamenti infrasettimanali dei Magazzini Generali, discoteca che generalmente ospita giovani poco inclini alla poesia cantautoriale. Andrew Bird, polistrumentista di Chicago, è un personaggio da non perdere, anche per chi conosce poco la sua opera. Quindi ci precipitiamo al locale entro l’orario d’inizio: 20.30 puntuali. Il tempo di cercare parcheggio e abbiamo già perso la prima canzone. Ma poco male, perché basta un attimo e veniamo immediatamente proiettati in un’altra dimensione.
I Magazzini Generali sono tutt’altro che gremiti, presto riusciamo a trovare un angolo di platea con ottima acustica e visuale. Bird è sul palco da solo, sta terminando un vecchio brano, Why. Vestito di scuro, l’aria un po’ arruffata di chi è in giro da qualche tempo, il fascino della barba di qualche giorno, il violino tra le braccia, occhi chiusi nel pieno dell’interpretazione della canzone. Presto viene raggiunto dagli altri membri della sua band, Jeremy Ylvisaker alla chitarra elettrica, Mike Lewis al basso, Martin Dosh batteria: è la prima volta che lo vediamo sul palco con altri musicisti. Sono gli stessi che gli sono stati a fianco nello scrivere gli ultimi lavori, i bellissimi Break It Yourself e il più recente Ep Hands Of Glory. Andrew si infila la chitarra a tracolla e parte un’altra vecchia canzone, A Nervous Tic Motion Of The Head To The Left, tratta dallo splendido album The Mysterious Production Of Eggs.
Ed è subito magia: Andrew ha una voce che conquista, con un’estensione che ricorda Tim Buckley, e un fischio da usignolo, che accompagna il ritornello, impossibile da dimenticare. Segue Desperation Breeds, traccia d’apertura di Break It Yourself, un’esplosione di virtuosismo: sembra ci siano dieci mani a pizzicare le corde del suo violino: grazie alla loop station il musicista aggiunge strato su strato, suono su suono, colore su colore, dipingendo atmosfere fiabesche. Tra l’archetto, lo xilofono, le sue corde vocali e il fischio intenso, in certi momenti sembra di assistere al concerto di un’intera orchestra: invece è sempre lui, minuto, intenso e carismatico. Quando fa cantare il suo violino è emozione pura, e il pubblico in sala risponde calorosamente. Una suggestiva introduzione ed ecco un altro pezzo datato, Fiery Crash: grazie alla band il suono è pieno e corposo, i musicisti sono perfetto accompagnamento e contrappunto del cantante, a sostegno ma mai sovrastanti.
L’incantevole Dance Caribe è un’altra delle tracce più riuscite, tra quelle nuove, riproposte in larga parte nel corso della serata, e che prendono nuova vita dal vivo, come le deliziose Luisitania e Orpheo Looks Back. Eleganza è la parola che ci viene in mente durante tutto il concerto di Bird, accanto a magia: la magia di riuscire a farci dimenticare di essere a Milano in una scura discoteca e di trasportarci dalle atmosfere urbane di Chicago al suo granaio nella campagna dell’Illinois.
Ad un certo punto, complici anche i due grammofoni rotanti sul fondo della scena (probabilmente un richiamo all’installazione di Ian Schneller, Sonic Arboretum, di cui Bird è stato parte), ci sembra addirittura che si alzi il sipario di un teatro polveroso del profondo dell’America, dove si esibisce un gruppo cajun: i musicisti si riuniscono infatti a semicerchio attorno ad un microfono vecchio stile, imbracciano chitarra acustica e contrabbasso e propongono un set di brani in chiave acustica (Give It Away, When The Helicopters Come della Handsome Family, MX Missiles, Something Biblical). Con Three White Horses (da Hands Of Glory), la band torna ai propri posti per una coda di sonorità più cariche: ed ecco Plasticities, Fitz And The Dizzyspell, la quieta e riflessiva Fatal Shore, la catartica Tables And Chair. Al rientro, ecco i nostri di nuovo in versione “old time” con If I Needed You (di Townes Van Zandt), la vivace Railroad Bill, un classico del country, e la bellissima Fake Palindromes in full sound. All’uscita, con la testa ancora piena di note, veniamo catapultati nuovamente nella sera milanese, tra i ragazzini che attendono di far serata in discoteca. Chi è stato spettatore di un momento di magia come questo, tuttavia, torna a casa sapendo di aver vissuto qualcosa di unico, custode di una bellezza che resta nel cuore e che sopravvive al grigiore del mondo di oggi.
(Silvia Pellizzon)
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