GIORGIO GABER/ Il ricordo: il Signor G, rivoluzionario perché realista

- La Redazione

A poco meno di dieci anni dalla sua scomparsa, l’impatto di Giorgio Gaver su colleghi musicisti e semplici appassionati è sempre vivissimo. Ecco una lettera al Signor G. di LORENZO ETTORRE

gaber_nuova_R439 Foto: InfoPhoto

Caro Giorgio, sono mesi difficili, questi. Rabbia e promesse si alternano, gioie e dolori ci accendono. Le piazze s’affollano d’inermi gendarmi mentre il cuore trafitto gorgoglia, e stramazza. Siamo liberi, siamo audaci, cani sciolti… siamo mosche impazzite in cerca di una merda su cui posare le ali. Ognuno di noi, caro Giorgio. Anche i più grandi, anche i più vivi, s’affannano ad affermar se stessi: perché vedere il proprio nome su una porta, o su un cassetto – addirittura! – fa sentir vivi, fa sentir bravi, mette in circolo l’assurda smania di potere che ci fa servi. Come correggere e asfaltare il prossimo: il gusto preferito di chi pensa di sapere e invece sa poco pensare. Senza mai togliersi le scarpe dinanzi al mistero altrui.

Scusami Giorgio, non voglio sembrarti un vecchio reazionario disilluso, ma a volte mi sento morire in questo strano mondo in cui il gioco più in voga è il possesso: di noi stessi, degli altri, di tutto. Per questo ti scrivo, perché so che sai capirmi, l’hai descritto così bene… Siamo fragili, siamo persi, e viviamo i rapporti vittime deprimenti di un calcolo soffocante – l’algebra, l’hai chiamata – in cui ogni azione misuriamo per poter meglio controllare. Piuttosto che vivere il bene che si vuole – se se ne vuole – calcoliamo per possedere.

In questi giorni si fa un gran parlare di te: sono ormai dieci anni che sei partito, ma non sei poi così lontano. Voglio dirti grazie. Hai saputo descrivere l’attesa del mio cuore come mai sarei riuscito solo a fare. Dal primo giorno che ti ho incontrato mi ero persuaso di aver trovato un amico: un uomo sincero col suo tormento, non invischiato nell’assurda lotta per prevalere, primeggiare, possedere ma in cerca soltanto di un senso per cui valesse la pena vivere. E’ raro trovare uomini così, Giorgio! Nell’apice del tuo successo hai lasciato tutto per seguire questa ricerca: soldi, carriera, potere, notorietà, tutto. Ti sei rimesso in gioco in teatro rischiando come solo un matto saprebbe fare, perché tutto il successo era niente per la tua sete. Ma è proprio nella pazzia, ci hai insegnato, che riposa la sanità. Passiamo la vita a far finta di essere sani – sudando per applicare gli schemi che la società borghese ci impone – e invece la sanità, la salvezza, è proprio nella rottura di questi schemi. Hai capito che il vero rivoluzionario non è chi rompe le vetrine, o le 128, ma chi disintegra questi scheletri. La rivoluzione non è nella società ma nell’intimità. La tua lealtà è la mia lealtà, la tua attesa è la mia attesa, la tua pazzia è la mia pazzia.

Hai sdoganato alcuni tabù con il dramma e l’ironia di un maestro: il sesso, per esempio. E’ una cosa bella – l’hai descritta così bene! – assurdo da condannare per un pretesco clericalismo ma anche piccola per il cuore, tanto più se osannata come un dio e inserita nella routine piccolo borghese del “sabato sera” ad ogni costo. Senza più libertà, senza più armonia, senza più scopo. Come pure assai piccino, oltre che inutile – ci hai ripetuto – è disintegrare le famiglie per correr dietro ai “brividini del cuore” di noi fragili affettati d’affezione. 

Le nevrosi, anche, hai sdoganato, raccontando dal vivo della tua pelle segnata le ansie, le angosce, le ossessioni, i dubbi di noi antichi moderni, facendoci piangere e ridere insieme. Roba scomoda, pochi ne avevano parlato, e sempre già schierati: tu hai preso di petto tutti i limiti dell’uomo – quelli fisici, quelli psicologici, quelli affettivi – e li hai percorsi fino in fondo. Perché? Perché esistono: e se esistono, perché nasconderli? Che fatica assurda nascondere l’evidenza… Sei stato un vero rivoluzionario perché sei stato un profondo realista. Hai seguito i segni della realtà e non le indicazioni delle teorie, e così hai rivoluzionato la rivoluzione.

Il vero sovversivo non passa mai di moda, Giorgio. Per questo, anche adesso, ascoltandoti, mi è impossibile restare indifferente. Rimetti davanti alla mia distrazione l’abisso senza fondo del mio bisogno e mi inviti a guardarlo, a non scansarlo, a prenderlo di petto, percorrendo magari una strada diversa dalla tua, nuova, più vera, che tu non hai avuto modo – chissà per quale meraviglioso mistero – di attraversare. Perché a te non interessa aver ragione, non ti è mai interessato dare indicazioni per poi affannarsi nel difenderle. Questa è una pratica da oppressi. Chi si erge a sapiente, chi pretende di sapere, si fa schiavo della sua saccenza, sempre costretto a difenderla. A te, invece, interessa solo il vero, il reale, l’oggettivo, anche se diverso dal tuo punto di vista. Che aria nuova starti davanti!

Per questo, signor G, lasciami dire con un pizzico di sentimentalismo e una marea di ragioni, che ti voglio bene.

Caro, mi sei fra gli amici più cari.

(Lorenzo Ettorre)





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