TRE/ Maria Giua e Armando Corsi, un duo di classe tra Totem e Tabù
TrE, il nuovo lavoro della cantautrice genovese Maria Pierantoni Giua e del chitarrista Armando Corsi. Un intreccio creativo dagli esiti sorprendenti. La recensione di ALESSANDRO BERNI

Una stoffa umana viva che si snoda in longitudine e in latitudine. Che esplora e si lascia esplorare nelle profondità più segrete a partire da quelle più immediate nella loro esternazione fisica. Che ama attraverso il dolore e ferisce nell’amore, che provoca e si fa provocare senza scivolare nella posa, ma tenendo un occhio ben aperto sull’orizzonte delle persone, delle cose che ne suscitano il moto e delle istantanee di vita quotidiana che ne definiscono le mosse e le istanze.
Questo itinerario potrebbe rappresentare un abbozzo di sintesi nel percorso d’ascolto del nuovo lavoro della cantautrice genovese Maria Pierantoni Giua che esibisce la forma e la sostanza di un ex aequo creativo con la regia dell’eccellente chitarrista-maestro Armando Corsi e che è al contempo qualcosa di più di una semplice collaborazione e qualcosa di meno che un progetto vero e proprio in duo.
In questo nuovo splendido album della cantautrice genovese in primo piano è questa bizzarra associazione di contributi che gioca più ruoli in uno stesso contesto. È il terzo album in studio dell’amico di traversata Armando Corsi (dopo “Itinerari” del 1995 e “Buena suerte” del 2006) autentico padre artistico di Maria. È pure il terzo album in senso anomalo di Maria (che conta un’opera prima “Giua” del 2007 poi ripubblicata con vari inediti a seguito della partecipazione a Sanremo del 2008).
E lo stesso album è un intreccio creativo dove si cela l’ombra e la pasta artistico-umana del compianto Beppe Quirici (al quale l’album è dedicato), l’altro mentore musicale, vero e proprio custode della fioritura di Maria, cursore del suo smisurato talento e scrutatore del codice genetico del suo primo lavoro che nella sua versione “expanded” del 2008 offriva una panoramica completa dell’entità artistica incarnata dalla persona Giua.
Chitarrista oltre il puro gesto accompagnatorio, compositrice dalle molteplici risorse e aperta alla continua definizione di un involucro squisitamente d’autore – prendendo le mosse dalla canzone di scuola genovese e dalla prosperità tematica dell’universo del folk mediterraneo con il filtro delle più svariate influenze tra Sudamerica e suggestioni iberiche – ha assemblato con il detto esordio un’opera agile, elegante, dal tratto ricco e vario con il tocco insieme essenziale e pregnante di Quirici a donare fascino e vibrazione a sonorità che inglobano spirito della terra, corposità e schegge di madreperla (le splendide “Terra e rivoluzione”, “Una casa ubriaca”. “Niente poteva andar meglio” e “Tremore lucido”).
Il nuovo lavoro porta la scrittura della Giua a ulteriori e sorprendenti esiti per un’opera seconda, sviscerando e tirando a lucido i riferimenti culturali del patrimonio suo e del maestro Corsi. La coniugazione dei due mondi musicali del primo disco trova una definizione ancora più felice e scorrevole nel presente lavoro dove non è più dato scindere la melodia mediterranea da quella brasiliana, ispanica o africana che dir si voglia, tanto risalta all’ascolto la natura originale e nativa della miscela approntata da questi geniali viandanti del pentagramma.
La pasta sonora è data dalla combinazione delle due chitarre – di volta in volta classiche o acustiche – della strana coppia che così si presenta nella trasposizione concertistica, ma che qui si avvale di alcuni contributi esterni che svolgono la funzione lieve e mai invadente del colpo di pennello su tela (fra gli altri Riccardo Tesi, J. Morelenbaum, Marco Fadda, Fausto Mesolella e Anita Macchiavello – nonna di Giua – nella filastrocca popolare genovese che chiude le cover nel bonus disc). Lo stesso Corsi si cimenta talora in lievi tratteggi ora di elettrica, Fender Rhodes e fugaci linee di sintetizzatore.
La successione del disco sembra presentare in apparenza un alternarsi serrato e simmetrico tra ballate agili e frizzanti e una sezione più intimista e riflessiva. In realtà, dopo le prime battute il disco declina verso lidi di densa intimità e malinconia, positiva ma pungente, forse a sottolineare il cammino non privo di dolori che ha contrassegnato l’approdo di Maria a questo sospirato sequel artistico.
Abbiamo dunque un canzoniere vivace e spigliato che con “Scatole cinesi” e l’incontenibile festosità di “Qui sul collo e sull’orecchio” offre una visuale scherzosa dell’universo amoroso che vira in un limbo tra il senso e il nonsenso divertito e provocatorio con l’effervescente singolo “Totem e tabù”, “Wonder Woman” e la spassosa “Pop Corn” filastrocca ipnotica e stranita quasi alla maniera della Vega di “Tom’s Diner”.
Avanzando tra i solchi si dischiude l’altro universo del disco che nello stesso tempo travolge, accarezza e percuote chi voglia accostarvisi con il silenzio e l’attenzione che merita la sua cifra artistica.
In questo viaggio che è contemplazione appassionata, peregrinazione dura, ma paziente e amorevole, scorrono brani di grande spessore – ora di evidente impronta corsiana – come “Belem” sfavillante cavalcata strumentale in punta di samba tra saudade e suggestioni cinematografiche anni ’60 – ora dove i differenti lasciti sudamericani dei due vanno a braccetto – come nell’intenso acquarello brasiliano di “Alberi”.
Sorprendente è poi l’approccio del sodalizio nell’attrazione continentale di sonorità nord-europee e classiche con l’accorata “Penelope” e la lussureggiante aria strumentale “La Via dell’Amore” dove – supportato dal violoncello di Morelenbaum, Corsi gioca di fioretto tra folk antico e ricami classici alla Howe.
Il meglio del disco si colloca tuttavia in quell’area dove la pura mediterraneità del composto sonoro viene sfiorato da altre contaminazioni con estremo garbo e pudore. Un’area dove Maria, senza mediazioni e divertissment di sorta, mette a nudo la propria natura di passione e desiderio.
Ecco allora in “Forse non è amore”, una riflessione leale e a cuore aperto su ragione e sentimento (“…non basta la voglia, non basta guardarti, averti qui non basta più… ma perché non è più facile lasciarti e non dimenticare, forse non è amore…), e in “Come fa una mela” la ricercata perfezione di un rapporto come gesto intero e naturale.
Ma è nel titolo bizzarro e quasi sgraziato di “Gru di Palude” che il duo e Maria in particolare regala qualcosa di realmente straordinario. Un testo che evidenzia con struggimento e delicatezza come la cifra del desiderio si sprigioni con tutta la sua forza originale da una creatura dal passo incerto e piegato (“Ho il passo stanco di una gru di palude, dinoccolato sotto il cielo d’asfalto, guadagno l’inizio e la fine, rallento metri con lo sguardo”) che si scopre capace di qualcosa in sé che pensava come sconosciuto, inesistente e soltanto sognato (“e sogno l’onda alta che mi sommerge, e sogno senza respirare, tu non mi avevi detto proprio niente … non mi avevi detto che so nuotare”).
Con il solo rivestimento sonoro delle chitarre acustiche e di accordi furtivi e sommessi di piano elettrico, ecco una ballata epica e struggente che si regge sulla scansione lenta e potente di frasi scolpite come roccia potente e sospiri in bilico tra meraviglia e malinconia.
Su tutto la voce di Maria a disegnare quello che può dirsi un melange di intenso lirismo e naturale “pianto vocale”. Una struggente ode gridata e sussurrata in faccia alla luna di cui si scorgono segni tangibili anche nell’interpretazione sentita della lauziana “La casa nel parco” e di cui l’ideale contraltare è rappresentato dalla estroversione solare e radiosa delle cover di “Volver” e “Cantarito de greda”.
“Tre” come preannunciato dagli stessi autori-titolari – e ribadito nella stesura delle note a margine dell’album – racchiude una tensione a rappresentare quella sorta di trinità cui tutti – bene o male, tenacemente o fragilmente – si aspira nella trama dei rapporti personali che abbiano quale centro le istanze più profonde e radicate del proprio muoversi (il moderno adagio “uno più uno fa tre”).
Trinità laica e insieme alla ricerca inesauribile di una “olofonia umana”, la forma ideale e definitiva di quadratura umana come cerchio di cui rompere gli argini per aprirne la struttura verso un cammino permanente in cerca di una sazietà imprevedibile e sfuggente a qualsiasi unità di misura già nota e riproducibile in serie.
Una vera e propria frantumazione dell’acquisito e del risaputo e un’avventura che si svolge istante per istante rinnovandosi come un’alba impensabile che si leva più volte nello stesso giorno.
(Alessandro Berni)
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