Chissà cosa ne pensa Morgan, che, per chi ha voglia di ricordarselo, rimpiangeva la sua esclusione dal Festival dovuta alle sue dichiarazioni sull’uso di droga, indugiando su quanto sarebbe stato bello dirigere sé stesso e l’orchestra come aveva intenzione di fare. E invece ora a dirigere c’è Dalla, che molto più nascosto dagli strumenti dell’orchestra di quanto avrebbe permesso il suo eccentrico collega, interviene sporadicamente sul ritornello di una canzone che porta la sua firma scritta più in grande di quella del suo giovane erede. Nanì, che fa tornare il Festival a occuparsi del tema della prostituzione, prendendola questa volta dall’originale-ma-non-troppo punto di vista di un cliente innamorato, è la tipica canzone “alla Dalla” senza emularne le vette migliori, e forse è per questo che l’alchimia tra il giovane teletalento e il grande cantautore italiano stenta a manifestarsi. Osservando una non coppia non duettare, e avventurarsi laddove aveva già fallito il più affascinante sodalizio Madonia-Battiato – disperso senza lasciare tracce – i maligni si domandano se la differenza di età e di eco mediatico non sia un tentativo di arruolare due pubblici fedelissimi e solitamente distanti fra di loro. Orfano e imprigionato dai riflettori in mezzo all’immenso palco dell’Ariston, un Carone lontano anni luce da «tutti luoghi e tutti i laghi» in cui aveva fatto immergere due anni fa l’amico Scanu, si ritrova a liquidare la scoperta del sesso, il conseguente innamoramento dell’ingenuo protagonista e l’ovvia presa di distanza di lei che si sente chiesta in sposa, in frettolose coppie di rime baciate, nelle poche frasi lasciate disponibili dall’ossessiva ripetizione del nome della protagonista e della domanda «perché tu ami sempre gli altri e io amo solo te?»
Pur promossa da un Dalla in versione santone che ne sottolinea rapito l’estraneità rispetto alla kermesse, Nanì approda al Festival in sordina, poiché il chiacchiericcio e le polemiche che tanto si erano rivelate utili a Povia, quest’anno fanno parte del cachet dell’Adriano nazionale.
Da lì ha un percorso altalenante: accolta felicemente dai critici che ne indicano tuttavia la forse eccessiva raffinatezza, viene bocciata dai trecento giurati ma ripescata da quasi la metà del pubblico votante da casa.
Ora, a giochi tutt’altro che fatti, il duo si riavvicina unito dalla voglia di prendersela con qualcuno. Ma anche questa volta il fuoco è inesorabilmente puntato in direzioni diverse.
Il giovane ce l’ha con il «perbenismo imperante» che impedisce alla gente di «capire un ragazzo che scopre l’amore in questo modo», e rivolgendosi al suo pezzo ne vanta la «vera psicologia all’interno di un testo molto pesante», mentre il veterano ce l’ha con una giuria in cerca di visibilità in un festival, da lui stesso definito il peggiore di tutti i tempi, che è «rimasto in ostaggio per cinquanta minuti di un “Sociologo”, che avrebbe fatto meglio a limitarsi a cantare».
Se Sanremo fosse un campionato, questo sarebbe il momento delle statistiche e dei numeri, e allora una considerazione è d’obbligo: negli ultimi anni i vincitori del Festival della Canzone Italiana non sono mai stati accolti nel migliore dei modi dai giurati; se questo mood dovesse andare avanti si rischia davvero di vincere il Sanremo più brutto di tutti i tempi. E a questo punto ci si chiede se ne valga la pena.
(Marco Ferrarini)