Caro direttore,
ai tempi dell’università, non passava settimana che insieme ai miei amici non ci trovassimo almeno una sera a cantare: lo facevamo per condividere le cose più vere e più belle che avevamo scoperto. E venne fuori Lucio Dalla. Alcune sue canzoni esprimevano il nostro cuore meglio di come avremmo saputo fare noi, e non c’era bisogno di aggiungere altro: erano belle perché vere, ossia perché certe parole ci svelavano a noi stessi.
Come quelle di Apriti cuore, pronunciate in una «notte calda di ottobre» mentre, perfino «sotto un cielo nero di stelle», il cuore rimane «cinico e indifferente», distratto dai «falsi sorrisi e le vuote parole» a cui si è abituato. E Dalla si rivolge a questo cuore che non parla, a quella parte di sé più profonda di ogni pensiero, invocandolo: «Apriti cuore, ti prego, fatti sentire». Il grido «cambierò» si accompagna al desiderio di tornare «come un tempo padrone di niente», perché «il potere e il denaro» non sono «il tuo dio». Dalla ha sempre dialogato con il suo cuore, che tante volte ha pensato di buttare via, e ci ha chiesto di «non lasciarlo mai solo come ho fatto io».
Da anni Apriti cuore mi risveglia dalla distrazione, facendomi riaccorgere che la partita con il cuore è tutta aperta, e smontando l’illusione che esso funzioni solo perché respiriamo. Vale per la voce di Dalla quello che lui intuì in Balla balla ballerino: «se capissero vedendoti ballare di essere morti da sempre anche se possono respirare». Ma «cosa sarà che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento?» (Cosa sarà): pensiamo a «quelli come Andrea, che a sedici anni sanno tutto della vita ma vivono in silenzio, in apnea» e credono che «la vita incominciata è già finita» (L’altra parte del mondo), ma al «bello sguardo» di Anna, «sguardo che ogni giorno perde qualcosa». Dalla però non ha solo descritto questa «poca vita, sempre quella», perché proprio «in un locale che è uno schifo, poca gente che li guarda, c’è una checca che fa il tifo», entra l’infinito delle stelle a sfondarne la piccolezza: «la luna è una palla ed il cielo è un biliardo, quante stelle nei flippers, sono più di un miliardo». E riesplode la domanda: «ma dimmi tu dove sarà, dov’è la strada per le stelle?» (Anna e Marco). Una delle tante domande, drammatiche, a cui Dalla ci ha inchiodati: «Ah felicità, su quale treno della notte viaggerai? Lo so che passerai, ma come sempre in fretta non ti fermi mai» (Felicità).
Qualche notte sembra che non sia questo cuore in attesa a essere muto ma il mondo: «Siamo uguali, tanti pezzi di un mondo che senza pietà cancella tutto e se ne va: rimaniamo a bocca aperta, lui ce la chiude e se ne va, come un bambino gioca e si nasconde, lo cerchiamo dappertutto, lui chiude gli occhi e si nasconde, passa vicino lo chiami non risponde, lo trovi addormentato per la strada, sdraiato sulle onde, poi di colpo apre gli occhi e ci frega, ci confonde nell’incanto della notte» (L’altra parte del mondo).
Il mondo, che ci ferisce e ci tradisce, torna a parlarci, e chiede del nostro cuore, che è l’unica grande «novità»: «vedi, amico mio, come diventa importante che in quest’istante ci sia anch’io» (L’anno che verrà). Dalla ha aiutato tanti a esserci «in quest’istante», perché lui ci è stato, con la sua curiosità di «incontrare le espressioni dialettali, mescolarmi con l’odore del caffè, fermarmi sul naso dei vecchi mentre leggono i giornali», fino a voler «girare il cielo come le rondini» e «seguire ogni battito del mio cuore per capire cosa succede dentro e cos’è che lo muove: da dove viene ogni tanto questo strano dolore? vorrei capire insomma che cos’è l’amore: dov’è che si prende, dov’è che si dà?» (Le rondini).
Ci è stato chiedendo «cosa sarà quell’uomo e il suo cuore benedetto», senza vergognarsi di scoprirsi addosso un «cuore malato, illuso, sconfitto, poi abbandonato» (Balla balla ballerino), né di bestemmiare: «Che porca vita è mai questa, sempre col coltello nella schiena e un desiderio che si secca in gola e il cuore è un’altalena» (Pecorella). «Sempre in giro a cercare per le strade» (Lucio dove vai), sapeva leggere l’uomo: «incontri la gente e si annoia, la noia è una congiura, ma poi vedi come vivono in fretta, forse la noia è soltanto paura: una paura che offende, che ogni mattina ci prende, la paura di esser ciccia da contare e che la vita non cambi più» (1983). Anziché fermarsi alla noia, l’ha letta come desiderio di cambiare. Ma come può avverarsi quel «cambierò» gridato dalla sua voce?
Negli anni Settanta, all’ottimismo di chi immaginava Il motore del Duemila, «bello e lucente», «veloce e silenzioso», Dalla ricordava che «seguendo le nostre cognizioni nessuno ancora sa dire come sarà, cosa farà nella realtà il ragazzo del Duemila… questo perché nessuno lo sa?». L’uomo è la cosa più interessante da scoprire: «Noi sappiamo tutto del motore, questo lucente motore del futuro, ma non riusciamo a disegnare il cuore di quel giovane uomo del futuro, non sappiamo niente del ragazzo, fermo sull’uscio ad aspettare». Tutte le nostre conoscenze non riescono a distrarci, ancora sotto le stelle, dalla «urgente» mancanza che siamo: «I razzi sulla luna, oggi è un fatto normale, se ne vedono tanti piantati in fila che sembrano alberi di Natale, poi spostando il cannocchiale puoi dare un nome alle stelle, puoi giocare con tutto o con niente e puoi giocarti anche la pelle, ma qualcosa ci manca e quel qualcosa ci stanca: ci stanca avere tutte queste cose che ci mancano se non le abbiamo più» (1983).
E non saranno i discorsi a parlare al cuore, perché «il cuore non è un calcolo, freddo e matematico», ma «è come un bimbo libero». I calcoli, ribadisce in 2009 (le cicale e le stelle), ci imprigionano: «Ormai ci si abbandona solo ai calcoli perfetti, al football e alla noia degli oggetti. Non ci si ferma più, non si muore veramente al brivido sottile di due occhi mescolati tra la gente».
Succede, a volte, che la profondità di uno sguardo ci stupisca al punto da dover stare attenti a «finir dentro ai tuoi occhi se mi vieni più vicino» (Cara), occhi «così neri così soli che se li guardi ancora e non li muovi diventan belli anche i miei» (Chissà se lo sai): «e com’è vero che negli occhi c’è tutto e che ogni sguardo è un mistero!». È lì che ci accorgiamo di averne bisogno: «il mondo è troppo grande, non lasciarmi solo qui, qui con me» (Pecorella). Ma è in agguato la distrazione, l’insincerità: «che pena, che nostalgia non guardarti negli occhi e dirti un’altra bugia. Almeno non ti avessi incontrato!» (Cara).
Dalla ha trovato parole semplici per dire quello che ci passa nel cuore, senza scandalizzarsi dell’amarezza: Quale allegria «se ti ho cercato per una vita senza trovarti», «se non riesco neanche più a immaginarti» né «so più dove cercarti»? E in questa assenza non basta divertirsi: «Quale allegria cambiar faccia cento volte per far finta di essere un bambino, con un sorriso ospitale ridere cantare far casino, insomma far finta che sia sempre un carnevale». Ha messo vicino il momento in cui ci troviamo a «uscire presto la mattina, la testa piena di pensieri» e a «tornare in fretta a casa tanto oggi è come ieri, senza allegria», e il momento in cui possiamo «sopra un palco illuminato fare un inchino a quelli che ti son davanti e sono in tanti e ti battono le mani senza allegria»: nemmeno il successo basta, ed «è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo» (Cara).
Di solito, allora, «bloccando il malcontento degli organi vitali si riesce a teorizzare all’infinito» e «così si va tranquilli tra la gente». Ma è «nel silenzio della notte», quando ci fermiamo «a guardare e ad ascoltare le cicale delle stelle», che ci rendiamo conto di quanto ci stiamo perdendo mentre corriamo dietro alle astrazioni: «noi volevamo avere tutto, tutto quanto calcolato, fino a quando abbiamo perduto» cose piccole ed eccezionali come «i silenzi telefonici, le promesse bisbigliate». E la durezza del cuore fa insorgere un dubbio atroce: «chissà se esisti più, se esisti veramente, brivido sottile di due occhi mescolati tra la gente» (2009 le cicale e le stelle).
È un dubbio alimentato perfino dai rapporti più familiari, come quando un ragazzo racconta dei suoi sogni: «La mia casa era sul porto, i miei sogni in riva al mare, diventavo marinaio, ero pronto per partire: sulla rotta di Cristoforo Colombo io volevo andare via, ai confini del mio mondo per scoprire un nuovo mare e scordare casa mia. Fu una sera di gennaio che mio padre mi portò, su una barca senza vela che sapeva dove andare, a gettare la mia rete dietro il faro e mi disse “figlio mio, questa rete è la tua vita, manda a fondo tutti i sogni come un giorno ho fatto io”. Ogni sera torno a casa con il sale sulla pelle, ma negli occhi e nel mio cuore ho le stelle, che potrebbero guidare la mia nave in mare aperto, mentre invece qui nel porto io comincio ad invecchiare» (Sulla rotta di Cristoforo Colombo).
Eppure anche «sotto un cielo di ferro e di gesso un uomo un uomo riesce a amare lo stesso» (Balla balla ballerino), purché sappia guardare quel punto che gli ridesta il suo sogno di libertà: «Dalla sua cella lui vedeva solo il mare ed una casa bianca in mezzo al blu: una donna si affacciava… Maria, è il nome che le dava lui» (La casa in riva al mare).
«Il pensiero, come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare» (Com’è profondo il mare), siamo fatti per «volare al fresco delle stelle e anche più in là» (Le rondini), e nessuna vertigine può fermare questo desiderio non di semplici avventure ma di una casa «in mezzo al blu» sentita come destinazione del nostro viaggio comune, come ricorda il povero marinaio a Ulisse: «anche la paura, in fondo, mi dà sempre un gusto strano: se ci fosse ancora mondo, sono pronto, dove andiamo? Itaca Itaca Itaca, la mia casa ce l’ho solo là» (Itaca).