RADIOHEAD/ Ok Computer, il desiderio che permane nella realtà

- La Redazione

I Radiohead stanno per tornare a esibirsi in Italia. In attesa, una guida all’ascolto del loro album più famoso, “Ok Computer”. A cura di IRENE PELLECCHIA

radiohead_R400 Foto Infophoto

Scrivere e dimostrare a un amico perché un certo gruppo o un certo tipo di musica piace, è la cosa più semplice per dimostrare quanto uno possa sbagliarsi a proposito dei giudizi che si danno, anche in fatto di musica. Cercherò di farlo in questa sede, nonostante io non sia un’esperta di musica. Si tratta di una rock band inglese formatasi nel 1986 inizialmente con il nome On a Friday, diventati Shinding, per poi cambiare definitivamente in Radiohead nel 1991, ispirandosi alla canzone Radio Head dei Talking Heads. La band è formata da Thom Yorke  (voce, chitarra, pianoforte), Jonny Greenwood  (chitarra, tastiere), Ed O’Brien  (chitarra, voce di supporto), Colin Greenwood  (basso elettrico, sintetizzatori) e Phil Selway  (percussioni). Con questa formazione e questo nome esordiscono nel 1992 con il singolo Creep e successivamente col primo album, “Pablo Honey”.

Dal primo all’ultimo album, “King of Limbs” del 2011, i Radiohead sono stati in continua evoluzione musicale, cambiando stili e ispirazioni. A influenzarli inizialmente artisti come Scott Walker, Elvis Costello e U2, e band post-punk quali Joy Division, R.E.M., Pixies, The Smiths, My Bloody Valentine e Sonic Youth. Dalla seconda metà degli anni Novanta i Radiohead cominciano a coltivare un certo interesse per la musica elettronica e in particolare quella di DJ Shadow, che influenza significativamente parte dell’album “OK Computer”. Altre importanti influenze provengono da gruppi e artisti come Pink Floyd, Beatles, King Crimson, Queen, Jeff Buckley  e Nirvana.
L’album che credo abbia riscosso più successo anche dal punto di vista commerciale fu il terzo: caratterizzato da un suono più esteso e dal tema ricorrente dell’alienazione moderna, OK Computer (1997) è riconosciuto da diversi critici come una pietra miliare della musica rock degli anni Novanta. Si da al caso che sia anche il mio preferito. Perché?

Innanzitutto mi esalta, mi fa impazzire il modo in cui legano alcune canzoni a quelle successive senza soluzione di continuità tra una traccia e l’altra (cioè senza interruzione musicale). Ci si può accorgere di questa magia tra la prima e la seconda traccia, rispettivamente Airbag e Paranoid Android, e tra Exit Music (for a film), la quarta traccia, e Let Down, la quinta. In particolare l’ultima non interruzione di cui sopra è eccezionale: Exit Music termina con dei suoni e dei rumori di sottofondo che ricordano quelli di una grande città indaffarata; e Let Down inizia proprio partendo da qui suoni per poi cantare degli stessi. I primi versi infatti sono: “Transports, motorways and tramlines, starting and then stopping, taking off and landing. Disappointed people, clinging onto bottles (…)”.

Let Down è un capolavoro. Brano grazie alla quale mi sono interessata di più ai Radiohead e uno dei miei preferiti in assoluto, è uno spettacolare insieme di suoni che convergono con le parole: il tutto dà veramente l’impressione di una città trafficata, fin dal legame col brano precedente. Questa convergenza tra le parole e la musica è ciò che più mi esalta di questo pezzo, oltre al fatto che mi ritrovo molto in quello che Thom Yorke canta: “One day I am going to grow wings”. Il desiderio di volare, volare via, fuggire nel cielo aperto (questa canzone è molto più triste della tanto amata e criticata Creep. Ma in seguito farò un appunto su questo grande successo della band). Desiderio che si scopre sempre di più in un crescendo dal minuto 3.30 (versione registrata in studio) in avanti, fino ad esplodere al minuto 4.00, quando le voci si dividono e accade l’inimmaginabile: nella cuffia destra cominci a prendere il volo, fino a non avere più fiato; mentre la voce nella cuffia sinistra ti tiene ancorato a terra, ricordandoti che il volo non lo puoi prendere e rimarrai “crushed like a bug in a ground”.

Come non apprezzare poi l’armonizzazione di Paranoid Android, seconda traccia di questo magico album. Tutto il brano è geniale (a voi la scoperta), ma in particolare io comincio ad esaltarmi veramente dal minuto 3.34 e sopra ogni cosa quando entra nella cuffia sinistra la quarta voce, più acuta, al minuto 4.35 (versione in studio). Semplicemente stupendo.

Decima traccia: No Surprises. Che in realtà di sorprese ne regala. Mamma mia che testo: descrizione di una vita monotona e infelice – “A heart that’s full up like a landfill, a job that slowly kills you” – che potrebbe concludersi con una stretta di mano al monossido di carbonio. Una vita senza allarmi e senza sorprese. Una vita da cui non ti aspetti niente. Una vita senza imprevisti, “una casa così carina, un giardino così carino” Ma c’è qualcosa che si ribella a tutto questo. Sì, c’è qualcosa che si ribella perché una voce comincia a urlare“Let me out of here” per tre volte di seguito, sovrastando il “No alarms and no surprises”. Non si arrende. Dice no alla monotonia e all’infelicità. Non ho preso in esame le altre tracce non perché siano da meno, assolutamente no; ma per lasciare a voi la scoperta.

Avevo però promesso un appunto su Creep, primo singolo e seconda traccia del primo album. È una bella canzone, non c’è dubbio; ma è sempre stata travisata dai fan come una canzone per depressi. I Radiohead non volevano essere classificati come “la band di Creep”, tanto è vero che Thom Yorke in un’intervista disse che per questo motivo la band ha cominciato ad odiare quella canzone, come una canzone maledetta (pur essendo quella grazie alla quale sono state aperte loro le porte del successo), e hanno deciso, dopo il primo tour in cui l’hanno eseguita, che non l’avrebbero mai più messa in scaletta. E fu così infatti per molti anni.

(Irene Pellecchia) 





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