Dieci anni senza Gaber è già un modo inappropriato di dire di una memoria che permane. Più sensato sarebbe dire dieci anni con Gaber. Almeno per il sottoscritto che ha scoperto la sua ingegnosa e sterminata produzione del teatro canzone molto tardi, poco prima di quella dipartita fisica che ancora oggi si agita, sgomita e non si rassegna ad essere assenza.
Ma se vogliamo anche per i tanti altri che ne hanno condiviso in tutto o in parte l’esistenza, vuoi fianco a fianco vuoi per ricorrenza d’incontri sul campo. Chi può veramente dire che gli anni trascorsi da quello strano e ingombrante viaggio – il più definitivo e tremendo dei viaggi – siano dieci anni di assenza quando la singola vita di ognuno di noi è piena di quei momenti di silenzio e stacco dove quell’altra vita apparentemente assente grida in maniera prepotente di essere una vita molto più presente e definitiva di allora?
Che strana e incredibile contraddizione è la vita, eppure uno la insegue sempre come Gaber ha inseguito il sottoscritto sin dalla più tenera età e poi è tornato a bussare con pazienza come una mamma, un padre o un autorità religiosa, come figure sentite spesso e volentieri persecutorie o limitanti la tua libertà ma che, incredibilmente, sono quelle che segnano di continuo la tua esistenza scandita da giorni, ore, slanci, fatiche, intenzioni e speranze infrante. Si direbbe una rivincita del destino nei miei confronti.
Era l’anno 1970 quando vidi quel Gaber che a Canzonissima presentava Barbera e Champagne e che – nell’innocenza vigile dei miei quattro anni – mi aveva lasciato quel segno immediato e furtivo di una personalità attraente piena di quella fertile indulgenza di chi seguiresti come un padre che è venuto a prenderti per riaccompagnarti a casa.
Venne il 1972 ed era già tutto un altro Gaber che – non più praticante dell’etere – metteva in scena il crollo delle relazioni e delle tradizioni familiari presentando, in una delle sue fugaci apparizioni, una caustica Latte 70. Dal piccolo dei miei sei anni sentii uno stacco profondo, mi sembrava di vedere qualcuno che volesse liberarsi di mia madre lasciando solo anche me ma nello stesso tempo un’altra parte segreta di me registrava come quello fosse il segno dei tempi, il termometro di una rottura che si respirava all’interno di molte famiglie legate ai miei da rapporti di amicizia. Ma era davvero troppo presto.
Dopo la metà degli anni ’70 orecchiai La Libertà in qualche imprecisata sigla della TV Svizzera e nella mia vita di allora era stato come avere a che fare con un ex padre ma fu con l’avvento degli ’80, ai margini della vita liceale, che questa incredibile figura si ripresento sottoforma di aut aut.
Una Pressione bassa che mi disse di un Gaber talmente disincantato da non coglierne la sottilissima ironia, mentre quel capolavoro de L’Illogica allegria l’avvertii come un’angoscia travestita da auto-suggestione di benessere, ma soprattutto Io se fossi Dio. Eh no quella no. Quella era una provocazione troppo grossa, era come se percepissi una invasione indebita di campo, una intromissione di chi – volendo registrare il fallimento e la rovina di tutte le confortevoli isole dorate – volesse imporci di rinnegarle dandoci in pasto ai nemici delle nostre tiepide certezze di buoni e ben pettinati figli della media borghesia.
Eppure qualcosa mi rimaneva addosso, mi nascondevo e guardavo con cautela dal mio spicchio di giardino dorato, osservavo nel Blitz di Gianni Minà (trasmissione di cultura/intrattenimento domenicale dei primi anni ottanta di Rai 2) il Gaber che – con la Melato de Il caso di Alessandro e Maria – raffigurava (lui stesso figlio della media borghesia) una fragilità affettiva ancora segno dei tempi che resa con l’impareggiabile ironia di un Signor G, sapeva far sorridere anche nella nuda amarezza del dato.
Forse è stato lì che i giochi hanno cominciato a riaprirsi tra il sottoscritto e quel padre che ha aspettato a lungo quest’orfano di un autentico significato di sé e di una sete di vera libertà, forse lì è cominciato il paziente ritorno a quel rapporto che era iniziato alla tenera età di quattro anni. Come è avvenuto? Impossibile dare una risposta immediata e istantanea. Tutte le grandi e vere risposte di una vita sono sempre in atto e camminano al proprio fianco anche quando uno sarebbe pronto a negarlo con tutta la propria malintesa onestà intellettuale.
Sta di fatto che quel seme che non sembrava mai dare frutto ha generato una sorta di gravidanza del pensiero con la riapparizione di Gaber in TV da Celentano e con quell’album targato 2001 La mia generazione ha perso che a vent’anni di distanza da Pressione bassa segnava il ritorno del Signor G ad un disco di canzoni non immediatamente legate ad una contemporanea rappresentazione teatrale. Da lì è stato un andare a ritroso paradossalmente per dare al proprio desiderio umano l’urgenza di una rincorsa giocata sulle marce alte.
Da Anni Affollati a Polli d’Allevamento a Libertà Obbligatoria fino agli albori del Teatro Canzone e poi ancora in avanti verso gli esiti estremi di quell’esperienza, è stata una graduale e sorprendente scoperta di una storia di musica e soprattutto di racconti che parlavano e parlano potentemente al presente suo e di tutti noi, percuotendolo e prendendolo per mano per continuare un itinerario sul quale – con differenti umori e voglie – siamo stati messi tutti.
Mi fermo qui perché questa non vuole essere una retrospettiva critica dell’opera di Gaber già fatta ampiamente e degnamente da molti e anche meglio del sottoscritto, voleva solo essere una piccola storia del rapporto tra me e Gaber (e quel Luporini che, guarda caso, esce in questi giorni con un libro che dice a sua volta del suo rapporto personale con il nostro), di come io sia entrato in qualche modo, e nel mio piccolo, nel suo laboratorio.
La vicenda di uno mai incontrato sul campo ma che mi ha preso con tutta la forza drammatica di un incontro definitivo a partire dalla storia di una assenza fisica, della sua assenza fisica. E se oggi io (come credo tanti) posso dire quanto manca Gaber, posso dire con certezza più alta e matura che lui non ha mancato me.