Se quel senso di ribaltamento che lascia la diretta con l’impatto passionale e soverchiante della musica di Alice non coincide con l’esperienza dell’innamoramento deve trattarsi di qualcosa di molto simile, perché quell’incontro fa balenare i tratti inconfondibili di quell’incomparabile istante. Assomiglia tanto a quel punto di non ritorno in cui la bellezza si espone a uno sguardo furtivo che viene ricambiato da un riscontro a sua volta impercettibile e quasi clandestino, quello in cui tutto ti dice “E’ lei”, il legame che segna la tua vita, l’apparentamento con l’eternità, il desiderio che trasloca in dimore di carne, sangue, occhi, cuore e viscere.
E quando si torna a casa la notte è anomala, si tramuta quasi in un inizio di giornata forse indizio dell’alba eterna, il pensiero è riempito ogni istante da quello sguardo in quella notte che pare aprirsi di continuo, illuminata e interminabile come quella di chi scrive queste righe. Non c’è nulla che possa fare partita pari con quella memoria permanente, forse un libro di Cormac McCarthy che rende in maniera straordinaria quel senso di accettazione dell’arrischiarsi in avventure continue verso un ignoto terribile e attraente innescato da un fulmineo incrociarsi di vite inquiete.
Assistere al Teatro Dal Verme il 14 gennaio a un concerto del Samsara tour è questo e altro ed è già riconoscimento di un impegno da onorare. L’indissolubilità con la musica e la voce di Alice.
Forte di una messa a punto di oltre un mese e mezzo e con la benedizione di una band di quattro elementi dalla grande resa agonistica, la nostra allestisce un set di 23 canzoni di cui ben dieci tratte dall’ultimo splendido lavoro Samsara per una durata che lambisce le 2 ore. Alice canta, incanta e come da tradizione si accompagna a tratti con piano e tastiere.
In apertura Tempo senza tempo dal capolavoro del 1990 Il sole nella pioggia (il più ricorrente tra i classici con ben quattro estratti) è una letterale dichiarazione di intenti. Musica che elude barriere, steccati e netiquette cantautorali passando senza soluzione di continuità dall’espressione d’autore alla breve coda art rock dell’eccellente chitarrista Osvaldo Di Dio che sparge note dense e svettanti su registri sinfonici.
Segue una lunga serie di brani da Samsara dove l’apice lirico-emotivo viene toccato dal volo d’angelo vocale di Morire d’amore e dalla musicalità narrativa di Autunno già. Da par suo Orientamento è un gustoso contrasto tra melodia d’autore e pop di prima scelta, così come la Eri con me di Battiato/Sgalambro dà ingresso alla ricorrente sezione ascetica del repertorio che viene esaltata dalla riproposizione de L’era del mito, fiorente miscela di folk ipnotico e ancestrale e dell’eterea Nomadi entrambe a firma Juri Camisasca.
E se l’irresistibile Chanson egocentrique riporta all’allegra vena pop rock seconda maniera, Alice persegue un cammino d’intenso lirismo inanellando in serie brani di puro repertorio tra i quali Un mondo a parte, la canzone/prosa Come il mare, il breve omaggio alla grande Giuni Russo che rivestì di musica i versi decurtisiani di ‘A cchiù bella, fino all’apoteosi di purezza evocativa di Anìn a grìs e quella propiziatrice de Il sole nella pioggia impreziosita da un’altra chiosa onirica del chitarrista. Il set regolare è chiuso dalla ballata popolare e universale de Il cielo di Dalla.
Nei bis riemergono l’immortale rapsodia romanzata di Prospettiva Nevskij, la stranita vena epica di una memorabile Il vento caldo dell’estate sorretta dal ricorrente plenum d’organo e la popolare trafila delle hit graffianti riproposte con grinta e senso di divertissement. Una Per Elisa sempre debordante di vetriolo e sonorità al fulmicotone e una non meno ironica Messaggio riproposta per due chitarre acustiche e percussioni.
E ad incorniciare il tutto lo smagliante ensemble di cui si diceva. Osvaldo Di Dio assoluto protagonista di ricami sonori e variazioni, Marco Guarnerio inesauribile jolly delle fondamenta sonore in equilibrio tra tastiere, chitarre ritmiche e programmazioni. E ancora una solida e brillante sezione ritmica che annovera al basso un Andrea Viti che giostra con dovizia tra lavoro di precisione e sottigliezze di pregio e alla batteria un Nik Taccori variegato e poliedrico centro ritmico.
Teatro pieno per quasi tre quarti ma il tripudio di applausi tributato a più riprese dice di una tensione e di un’unità pubblico-artista che va oltre il freddo dato aritmetico. Come nasce tutto questo? Semplice, basta dare carta bianca alla curiosità di testare sul campo la bellezza della musica e della vocalità – ancora oggi pura e cristallina – dell’artista forlivese e allora può essere come scoprire una sezione di cielo sconosciuta, quel lato nascosto della distesa stellare dove si va a banchettare con i grandi di questo indecifrabile mistero che fa sentire il suo richiamo con le sette vibrazioni combinate irresistibilmente nella grande musica.