Le prime parole che sento non sono italiane. Quando arrivo davanti all’Alcatraz martedì 22 gennaio, vengo accolto dal rumore di una conversazione in inglese, ma anche da un idioma che aveva tutta l’aria di essere di origine slava. È anche da queste piccole cose che riconosci un gruppo speciale. I Marillion sono in giro da 30 anni, hanno pubblicato 16 album in studio e hanno da tempo impostato un rapporto speciale con i propri fan. Un rapporto fatto di lunghi tour, concerti registrati integralmente e messi a disposizione a poco prezzo sul loro sito ufficiale, scalette sempre diverse di sera in sera e addirittura uno speciale weekend ogni anno (purtroppo per noi, sempre in Olanda) durante il quale suonano tre concerti completamente diversi, spesso e volentieri soddisfando le richieste più strane.
Sono stati anche i primi, intravedendo la crisi delle etichette discografiche, a chiedere al loro pubblico un contributo finanziario per la realizzazione dei loro dischi. Lo fanno da più di dieci anni e la cosa ha sempre avuto un enorme successo. Naturale che ci sia sempre una grossa base di gente che si muove con loro, proveniente da varie nazioni europee ma non solo. Questa volta poi l’occasione è ancor più ghiotta: in giro per promuovere l’ultimo “Sounds that can’t be made”, la band ha deciso di fare un regalo speciale al nostro paese: a Milano i concerti saranno due (una cosa che in questa leg europea del tour è avvenuta solo a Parigi), cosa che vorrà dire più brani in scaletta e possibili sorprese in arrivo.
Ad aprire ci pensa Marco Machera, un giovane bassista e cantante che ha da poco registrato un disco,”One time somewhere”, su cui suona gente come Rob Fetters o Pat Mastelotto. Si presenta emozionato, grato dell’occasione che i Marillion stessi gli hanno offerto e ci mette pochissimo a conquistarsi il pubblico. Timido e posato, mai una parola fuori posto, spiega le canzoni con umiltà e pacatezza e non si risparmia divertenti battute. Si vede che crede in quel che fa e chi è presente lo capisce e lo sommerge di (meritati) applausi. Musicalmente la sua proposta è difficile da inquadrare ma si muove su coordinate stilistiche che hanno nei Pink Floyd, nei Porcupine Tree e negli stessi Marillion i principali punti di riferimento. I suoi brani non sono immediati ma si lasciano ascoltare volentieri, anche grazie ad una band decisamente valida. La seconda sera abbiamo anche la possibilità di sentire qualche cosa di nuovo, non ancora pubblicato, e l’impressione è di aver davanti un artista in crescita. Una realtà interessantissima in un paese sempre troppo spesso all’inseguimento dei cliché. Da tenere d’occhio (www.marcomachera.com)!
I Marillion arrivano alle 21.30 e si trovano davanti un locale bello pieno, anche se è stato montato il palco più piccolo, rispetto a quello che si utilizza per i nomi commercialmente più blasonati. Il pubblico ha un’età media molto elevata (dire che ero tra i più giovani fa un bell’effetto) ma è anche ovvio che sia così. Dopo la stagione di gloria con Fish alla voce, in cui erano considerati gli eredi dei Genesis, il gruppo, complice anche l’ingresso di Steve Hogarth, ha cambiato completamente direzione, esplorando tutto l’esplorabile in chiave rock. Ha guadagnato nuovi fan ma non ha mai prodotto cose facili e la sua proposta è rimasta di nicchia. Di contro, c’è che chi li va a vedere li ama alla follia, li conosce profondamente, e segue quindi il concerto con un’attenzione e una partecipazione che si incontrano raramente da altre parti.
Si parte coi 17 minuti di “Gaza”, opener dell’ultimo “Sounds that can’t be made”, un pezzo dove c’è già dentro tutto. È un prog rock, il loro, che vive molto di più di cambi di atmosfera e di sensazioni, piuttosto che di virtuosismi esagerati. Sono pezzi lunghi ma paradossalmente semplicissimi in quanto a strutture, pezzi dove però succedono un sacco di cose e che proprio per questo vengono seguiti in religioso silenzio dal pubblico, che sottolinea con grida e applausi i momenti salienti. Hogarth è un frontman navigato, la sua voce è limpida e cristallina come nei primi anni, interpreta i pezzi con una intensità e una teatralità fuori dal comune, “sentendo” ogni parola in maniera tale che, anche chi non conoscesse il testo a memoria, potrebbe capire tranquillamente di che cosa sta raccontando.
Il resto della band non è da meno: il chitarrista Steve Rothery, leader e fondatore di un gruppo che comunque, eccetto Fish, non ha mai avuto consistenti cambi di formazione, è quello forse su cui il tempo si è accanito di più ma il suo modo di suonare non ne risente.
Siano arpeggi, passaggi in slide o veri e propri assoli, fa tutto con una classe assoluta, muovendosi poco ma elargendo continui sorrisi all’indirizzo del pubblico. Più sornione Pete Trewavas, il bassista, che fa anche un grande lavoro alle backing vocals e che vive il concerto in maniera molto più fisica. Poi c’è Mark Kelly, con la sua pelata inconfondibile, uno che sembra sempre un eterno ragazzino e che armeggia tutto il tempo dietro le sue tastiere, non dimenticandosi di lanciare frequenti sguardi in platea, stupito delle reazioni entusiastiche della gente. Dietro a tutti c’è poi Ian Mosley, il batterista. Non lo si vede, coperto com’è dai tom e da un Hogarth sempre in movimento, ma c’è eccome, vero cuore pulsante di questa band.
La band, insomma, è sempre quella ma la grande domanda di ogni loro concerto è: “cosa suoneranno stasera?” E allora ecco che subito dopo “Gaza” si parte con “Ocean cloud”: altri 17 minuti per un brano che raramente si sente dal vivo e che è forse l’apice di quel capolavoro del 2004 che porta il nome di “Marbles”. Come dire, due pezzi e si potrebbe già andar via.
Metà show è all’insegna del nuovo album, da cui vengono estratti solo i pezzi migliori: la title track, l’intensa e drammatica “Power”, la delicata ballata “Pour my love”, la lunga “The sky above the rain”. Un disco che, pur contenendo alcune cose trascurabili, ha riconfermato lo stato di grazia di una band che raramente si smentisce. Interessante anche notare come non solo il materiale nuovo non sfiguri per nulla di fronte ai vecchi classici, ma anche come i fan lo salutino con ovazioni entusiastiche, segno che è già stato metabolizzato a dovere.
Altro apice di questa prima serata è “Neverland”, che racconta la storia di Peter Pan in una maniera che commuove quasi di più della versione di Barry, e che per dieci minuti letteralmente paralizza tutti i presenti.
Poi arriva “The great escape” (unico estratto dal celebre “Brave”) mentre gli animi si scaldano con “Man of a thousand faces”, un brano più diretto, che si presta ad essere cantato a squarciagola. Su questo, i Marillion si congedano. È passata un’ora e mezza e ovviamente nessuno è sazio. Due minuti dopo eccoli dunque comparire ancora per omaggiare, unica volta in queste due sere, l’era di Fish: “Warm wet circles” e “That time of the night” sono ormai completamente mutate negli arrangiamenti e nell’interpretazione vocale e mostrano quanto un certo tipo di proposta fosse molto legata a quel. Particolare periodo storico. Tuttavia, fanno ancora la loro bella figura e il pubblico le canta entusiasta.
Ancora una volta la band lascia il palco ma ancora una volta non è finita. Rientrano tutti tranne Mosley, Hogarth spiega divertito che è andato in bagno e che loro non hanno voluto aspettarlo: Rothery imbraccia l’acustica ed ecco arrivare “Easter”, a cui Mosley si unisce non appena rientra, tra gli sfottò divertiti dei compagni. Si chiude con “Three minute boy”, iniziata dal solo Hogarth alla tastiera e completata poi da tutto il gruppo. Staremmo lì ancora per delle ore ma è quasi mezzanotte e poi il giorno dopo si replica.
La sera successiva, dopo che ci hanno nuovamente deliziato in apertura con “Gaza” (i brani del nuovo album saranno tutti eseguiti nuovamente, seppure in ordine differente) Hogarth saluta e chiede chi c’era il giorno prima: più di due terzi dei presenti alza la mano urlando. Poi via con “Beautiful” (“una canzone che nessuno vuole sentire” dicono ridendo dopo che molti hanno urlato titoli di altre canzoni) e altri due estratti da “Marbles”: la rockeggiante “You’re gone” e l’immancabile “Fantastic place”. Poi, prima dell’esecuzione di “Pour my love”, divertente siparietto tra Hogarth e la band: in molti chiedono “Montreal”, uno dei pezzi forti del nuovo album e il cantante risponde: “No, quella la teniamo per un’occasione speciale. Non che questa non lo sia ma…” Con gli altri che lo guardano agghiacciati come a dire: “Bella figura che hai fatto!”. Ennesimo episodio che fa capire il clima disteso di queste serate e di come l’interazione tra band e pubblico sia stata altissima.
La seconda serata è anche più impegnativa musicalmente: basti pensare che come brano finale prima dei bis ci vengono offerti i quasi 20 minuti di “This strange engine”, il lungo ed epico racconto ispirato alla vita del padre di Hogarh. Ancora una volta stupisce l’attenzione e la preparazione del pubblico, che vive ogni singola nota e si entusiasma nei passaggi più toccanti. E ce ne sono parecchi, visto che è un brano in cui soprattutto Kelly e Rothery hanno modo di dare prova di sè. Il primo bis, a confermare il livello altissimo dello show è un altro brano fiume “The invisible man”, episodio molto pinkfloydiano, in cui lo straordinario carisma recitativo di Hogarth (che arriva a truccarsi e a cambiarsi d’abito per raccontare meglio le sofferenze psichiche del protagonista) la fa da padrone.
Tutto bellissimo ma sappiamo che con due pezzi così lunghi in chiusura, non potremo ascoltare molto di più. La band ha però ancora voglia di suonare e, col disappunto di molti, decide di accontentare chi non c’era il giorno prima e di suonare nuovamente “Neverland”. Non era ciò che la maggior parte si aspettava e non sono stati pochi quelli che non hanno gradito. Poco male: il pezzo è comunque splendido e anche se sarebbe stato meglio ascoltare qualcosa di diverso, rimane il fatto che sia stato un bel modo di concludere.
Che dire di più? Due serate memorabili, come raramente se ne vedono. Ma chi ama i Marillion sa che questa è ordinaria amministrazione. Speriamo solo che ripassino presto.
(Luca Franceschini)