NICK CAVE/ “Live From KCRW”: anime perdute in una canzone

- Lorenzo Randazzo

Nuovo disco dal vivo per Nick Cave, che riporta su disco un concerto eseguito in intimità davanti a un piccolo gruppo di spettatori. La recensione di LORENZO RANDAZZO

cave_R439 Nick Cave

Una bella sorpresa di fine anno. Dopo l’ottimo album di inediti Push the Sky Away pubblicato a febbraio e una trionfale tournée mondiale appena conclusa, Nick Cave & The Bad Seeds hanno messo in commercio Live From KCRW. Si tratta di un album registrato dal vivo, il quarto della serie, che non è un resoconto o una riproduzione fedele della recente attività concertistica potente e selvaggia, bensì Cave & Co. ci fanno sentire cosa sono in grado di fare in un momento di svago e di tranquillità; infatti la registrazione effettuata in una stazione radio di Los Angeles negli studi Apogee di fronte ad uno pubblico limitato di 180 persone, risale al 18 aprile, un giorno di riposo tra  due weekend di concerti al mitico Coachella Festival, in cui Cave si è sdoppiato con i Grinderman e con i Bad Seeds. 

La formazione della band è ridotta. Nick Cave (piano e voce) si accompagna e si affida come sempre al fido Warren Ellis, a Martyn Casey al basso, a Jim Sclavunos alle percussioni e per questa occasione conta anche sull’apporto di Barry Adamson.

Come detto, l’album sorprende in semplicità. Anche il packaging è essenziale: cd singolo, dieci brani (dodici per l’edizione in vinile perché si aggiungono le classiche Into My Arms e God is in the House), nessun inedito, nessuna cover particolare, nessuna collaborazione altisonante. Così presentato, nella moltitudine dell’offerta musicale è un prodotto che, nonostante la copertina curiosa che ritrae Nick Cave seduto in solitudine e in posa rilassata tra gli equipaggiamenti e le casse da viaggio della band, davvero poco invoglierebbe all’acquisto. 

Essenzialità (ma non semplicità) anche nel suono. Le sorprese, quelle vere, quelle che ci piacciono, arrivano giustamente con l’ascolto dove le tracce da incorniciare sono almeno quattro. La prima è il brano di apertura Higgs Boson Blues, già miglior pezzo di Push the Sky Away, è un viaggio ipnotico e surreale. La versione incisa, se mai fosse stato possibile, è ancora più drammatica di quella in studio. Indolente e allungata nel minutaggio, Cave intona le parole in maniera calma, intensa, quasi sofferta. L’emozione è tanta: “Can you feel my heartbeat?”. Certo che sentiamo il battito del tuo cuore Nick. Con Wide Lovely Eyes, Mermaids, Push The Sky Away in totale i brani attinti dall’ultimo album sono ben quattro. Manca purtroppo all’appello Jubilee Street, altro brano assolutamente imprescindibile che aveva dato il via ad uno show incendiario all’Auditorium di Roma. In quell’occasione l’artista australiano giunto sul palco avrebbe espresso il suo disappunto per una esibizione seguita da una platea in poltrona. Pronti, via, alle parole di Jubilee Street: “I am trasforming, I am vibrating, I’m growing, I’m flying. Look at me now, I’m flying” Nick Cave è sceso in platea facendosi largo tra la folla con uno slalom tra e sulle poltroncine di velluto (ricordate Benigni alla Notte degli Oscar?!?) dando così la sua benedizione ad un concerto rock non solo nella sostanza, ma anche nella forma. 

Per l’intera esibizione radiofonica invece Cave si mantiene rilassato e posato ma riesce comunque a sorprendere. E lo fa con il  secondo gioiello del disco Far From Me che, insieme alla più ben nota People ain’t no good, è tratta da The Boatman’s Call, l’album più intimo e melodico. Personalmente l’incisione in studio di Far From Me, non mi aveva colpito. Questa versione, essenzialmente per piano, è arricchita dall’eleganza del violino di Ellis il cui apporto va ad esaltare l’intensità e la drammaticità e ci consegna un brano rivisitato, nuovo, stupendo. Il resto lo fa la voce grave e toccante di Cave e le parole strappalacrime che ci raccontano di un amore e sofferto: “Per te cara sono nato, per te sono cresciuto, per te ho vissuto e per te morirò…” ma dalla quale è ormai lontano: “…per te muoio ora…alle prime difficoltà sei tornata da tua madre”. Il dolore non si placa nemmeno in And No More Shall we Part (terza perla): “…sono solo lei mi ha lasciato…”. Il dramma resta, ma la perdizione e il buio degli esordi forse sono stati superati da una speranza: “Signore, stammi vicino, non mi abbandonare, non sarò mai libero se non sono libero adesso”. Poi un Cave divertito richiede suggerimenti al pubblico sul brano da eseguire: le richieste sono le più disparate da “Nick the Stripper” a “I’ve got the Devil” (a Roma, con Nick al piano, è persino arrivata la richiesta di eseguire Schubert…) finché la scelta ricade su una classica e sinistra Stranger than Kindness.

The Mercy Seat è la quarta canzone da segnarsi con il circoletto rosso. Questa versione principalmente per piano e  per voce è diversamente bella rispetto all’originale, più toccante ma con meno ritmo. Il set meditativo si conclude quando Nick si rivolge al suo batterista: “Hammer it, Jim” e da il via ad una indemoniata e forsennata Jack the Ripper che chiude l’esibizione.

Nella tranquillità di un live insolito, i Bad Seads sprigionano l’energia non con il volume ma con melodie suggestive che giungono all’ascoltatore in maniera quieta e misurata. L’impeto e la forza della chitarra e della batteria sono sostituiti dalla delicatezza e dalla dolcezza del piano e del violino. Le note di copertina sono eloquenti “No rehearsals, no cameras, no overdubs” e Cave spiega così le ragioni della magia e della chimica positiva dell’album: “In qualche maniera perdiamo le nostre anime nelle canzoni”.  Proprio quelle anime che un giorno andranno rese al Creatore e che un tempo erano perdute. E che ora si sono riscoperte gentili. 







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