Imogen Jennifer Heap da East London, alias la donna che sussurra al vocoder, la musa dei suoni algoritmici che facendo detonare la musica elettronica ha portato e continua a portare in scena la sua architettura visionaria fatta di modernità frenetica mischiata a sane intrusioni di tradizione popolare. Forte di un esordio misconosciuto a soli 21 anni – “iMegaphone” (1998) – seguito dal progetto pop-trip hop in duo denominato Frou Frou con l’interessante “Details”, la nostra fa il suo definitivo ingresso nel mondo della musica come artista in proprio prendendosi personalmente tutti i rischi possibili per la continuazione del progetto. Accende delle pluri-ipoteche sul suo appartamento per finanziare costi di produzione, affitto dello studio di registrazione e acquisto degli strumenti, crea la sua etichetta Megaphonic Records.
Nel giro di un anno e mezzo l’album è cosa fatta e la scommessa con se stessa praticamente vinta. Il luglio del 2005 saluta la pubblicazione dell’album “Speak for Yourself” preceduto di due settimane dal singolo Hide and Seek. L’album entra al numero 144 di Billboard (arriverà alle 120.000 copie vendute) mentre il singolo si spinge fino al numero 22 della download chart di iTunes in Inghilterra.
Un disco bellissimo, fresco e spregiudicato per come riesce a catturare e sintetizzare le tendenze dell’electro pop cantautorale della decade precedente filtrandole alla luce delle celebri sortite dei grandi musicisti ambient ante litteram come Oldfield e Reich in ideale congiunzione con Laurie Anderson. Ricerca sonora, finiture rock, tecnologia, dream pop, folktronica si inseguono senza soluzione di continuità (su tutte Loose Ends e l’iconica Hide and Seek). Il tutto con il minimo comune denominatore di un trademark sonoro rappresentato da una schiera di tracce vocali (tutte della nostra) che si riuniscono e si dipartono continuamente da quella conduttrice che agisce spesso e volentieri su modulazioni alte tra il sussurrato e il lirico.
I quattro anni successivi scorrono tra richieste di apparizioni ai festival che aumentano esponenzialmente e l’alleanza strategica con la Sony per il lancio del nuovo album. Forte di questa intesa e della popolarità crescente dell’artista britannica “Ellipse” (2009) fa il botto arrivando al n. 39 nel Regno Unito e ad un notevole n. 5 negli Stati Uniti.
Un album sostanzialmente più discontinuo del precedente, in debito di freschezza nel cercare di replicare lo stile dei brani più vivaci del predecessore, e che tuttavia annovera picchi ancora più pregevoli come la giocosa e irresistibile Tidal e le stralunate rapsodie elettro-oniriche di 2-1 e Canvas. In questi e altri brani si intravede quella che sarà l’evoluzione del mood musicale della Heap, un ibrido dove ironia e malinconia si intrecciano in una girandola di tinte forti e marcate.
Alla metà di quest’anno prende forma definitiva l’esito di questo percorso. Preceduto da una sfilza di brani pubblicati come download tra il 2011 e il 2013, “Sparks” viene pubblicato lo scorso agosto quasi di soppiatto e all’insegna di un rimescolamento dei talenti artistici della nostra in chiave prevalentemente introspettiva.
Cosa che emerge evidente sin dall’apertura, con una You Know Where to Find Me che è come un’implorazione ultima di amore ai tempi della precarietà assoluta del cuore e delle sue motivazioni. E di lì una successione senza fiato di confessioni crude e mirate. La straordinaria The Listening Chair è un frenetica rassegna fotografica dove la nostra rilegge in forma serratissima desideri, sogni e aspirazioni personali dalla nascita ad oggi per congedarsi con l’interrogativo sospeso “Chi sono ora?”. Musicalmente è forse il vertice dei brani impostati sulle scorribande vocali a più strati. Variazioni armoniche senza sosta, stop, ripartenze, serpentine, furori noise in un melange che stupisce per eterogeneità e armonia.
Una esuberante Cycle Song tra forcing elettro-folk e schiamazzi etnici rivisita alla sua maniera la Bush di The Ninth Wave mentre Telemiscommunications mette ulteriormente a fuoco il tema ricorrente dello scollamento nelle relazioni umane benedetto dalle apparenti facilitazioni del progresso. Un bel lavoro di accordi bassi di pianoforte, l’aspirato raccolto e malinconico della nostra e un altro gioiello è in cassaforte.
Non è da meno una scura e cibernetica Neglected Space, miriade di suoni ora sotterranei ora spettrali in stretta combinazione con fasi sospese e interrogative. Il persistente battito elettronico che caratterizza il lavoro (emblematico in questo senso l’appeal marcato di Lifeline) agisce in maniera compulsiva persino nelle fasi più genuinamente etniche dove si affacciano scorci un po’convenzionali di Africa e ritualismi annessi (Minds Without Fear).
E al culmine del percorso la vena maliarda e suadente di Me the Machine e The Beast giocano in staffetta con le tastiere rifrangenti della fascinosa dance semi-allucinata di Run-Time completando l’allestimento e legittimando ancor più l’essenzialità sfaccettata e multiforme di questa nuova grande prova della maga dei suoni britannica.