Entri in questo libro, “Peccato l’argomento. Biografia a più voci di Enzo Jannacci” di Sandro Paté, segui pagina dopo pagina il suo percorso con curiosità e interesse, facilmente con passione. La strada che ti fa compiere questa “biografia a più voci” si snoda piena di tornanti e dislivelli, come uno Stelvio o un Pordoi; ogni tratto è una nuova scoperta, un panorama inedito, una dimensione inaspettata, uno scorcio imprevedibile dell’avventura di un uomo e di un mondo: un uomo geniale, medico e artista, Vincenzo Jannacci; e un mondo crocevia di incontri di musicisti, poeti, scrittori, poveri cristi, che hanno riempito di fermenti creativi locali del centro e bar di periferia di una certa Milano vera.
Durante la lettura ti accade di non saper più definire da che parte hai cominciato e dove sei andato a parare. Per forza: il libro di Sandro Paté non punta a definire il personaggio, ma a far rivivere un incontro. E lo fa con le sue domande a più riprese rivolte a Jannacci e con le voci di tanti importanti testimoni che raccontano il loro incontro con il grande medico artista (perché di un grande, ma grande, trattasi). E non uno di loro che non sia stato fortemente colpito, impressionato e stupito dal suo modo di essere. Per uno fuori da ogni schema come Enzo Jannacci, non credo si potesse fare scelta migliore di questa che ha fatto Sandrino Paté.
Musicista, cantautore, cabarettista, autore di pièce teatrali e di spettacoli televisivi, attore di film, talent scout, cardiochirurgo, medico di base, cintura nera e maestro di karate: Jannacci non è stato certo un uomo a una dimensione. Impossibile da incasellare: non solo per l’eccezionale poliedricità delle sue espressioni, ma per il suo essere stato – dagli esordi al pianoforte fine anni ‘50, alle ultime fatiche artistiche e sofferenze fisiche sino al 2013 – sempre su un altro limpido pianeta rispetto al pianeta paludoso del luogo comune, della convenzione, dello scontato, del politically correct. Per essere sempre stato con la “periferia dell’umano” e non con il “centro del potere”.
Chi come me non avrà fatto la resistenza ma nel ‘68 c’era, ergo adesso c’ha i capelli bianchi, è positivamente impressionato che un giovane come Sandrino Paté, classe 1977, sia stato così profondamente raggiunto e catturato dalla figura e dal messaggio di Jannacci. Su Jannacci Paté ha fatto la tesi di laurea, a suo tempo, e il maestro si è messo a sua disposizione per molti colloqui, gli è diventato amico, e gli ha riletto la tesi: “Hai fatto un ottimo lavoro”, gli disse. “Peccato l’argomento”. E con questa mossa di puro cabaret gli regalò il titolo che Sandro ha scelto di dare al suo libro.
Libro che, in realtà, organizza bene le molteplici voci dei testimoni attorno ad alcune chiavi fondamentali dell’opera: il contesto culturale artistico e canoro della Milano anni ‘50 e ‘60 che vide i suoi esordi; la centralità della musica; il senso delle “canzonette”; l’esperienza del cabaret; la comicità; lo spettacolo.
Nel primo capitoletto, Le canzonette, Patè ci fa vedere come dietro la definizione ironica (ripresa in un pezzo famoso di Bennato) c’è una produzione di 400 titoli registrati in Siae e accomunati da “una fissazione: la vita delle persone”. La vita vera, non quella di maniera tutta rime cuore-amore delle canzoni allora in voga; la vita dei disgraziati, quelli lasciati indietro dal boom economico, immuni dal consumismo, nei quali si riconosce meglio l’umano. Spesso le canzoni hanno per titolo un nome proprio di persona: Veronica, Silvano, Rino, Mario, Pasquale, Pedro, l’Armando, Vincenzina, Maria. E spesso sono inquadrate in luoghi precisi – periferici, per lo più – dove la concreta vita dipana la sua faticosa quotidianità: l’Idroscalo, via Lomellina, Rogoredo, l’Ortica, Baggio… Canzoni strane, a volte sembrano bizzarre, o schizo, o folli, c’è dentro roba da ridere ma è un modo per riuscire a dire temi anche drammatici dell’esistenza o per fare marameo al potere come in Ho visto un re. Alla macchietta (apparente) di Vengo anch’io il successo arride e la TV spalanca le porte; porte che gli sbatte subito in faccia quando propone Gli zingari o, appunto, Ho visto un re.
Il mondo già omologato della televisione c’entrava poco con quel mondo meneghino che nei primissimi anni ‘60 aveva messo in scena lo spettacolo Milanin-Milanon (il titolo è tratto da una prosa di Emilio De Marchi), dove accanto a pezzi da novanta del calibro degli affermatissimi Tino Carraro e Milly si esibiva un giovanissimo pianista pazzo studente di medicina. Che sarà notato, tra gli altri, da Dario Fo. Quello che aveva già accompagnato con il pianoforte, e con le prime canzoni, la Maria Monti in tournée. “Gli amici lo chiamavano Schizzo”, ricorda Maria Monti; e Gianfranco Manfredi ha coniato per Jannacci la definizione di schizo-music, nel senso che “la grande capacità di Enzo è stata sempre quella di stravolgere i tracciati del previsto e del prevedibile”.
Non aveva niente a che fare, quella tv, nemmeno con i bar, magari di periferia, frequentati da poveri e ricchi, semplici e intellettuali, commercianti e artisti. Paté racconta della mitica pasticceria Gattullo di Porta Lodovica, e ricorda che per Jannacci “tutta la roba importante parte da lì”; ci fa sapere di scrittori attorno al medico-artista, come Umberto Eco, Franco Fortini (Jannacci ha musicato e cantato la sua poesia Quella cosa in Lombardia), Umberto Simonetta, Cesare Zavattini (che definì Ti se se no come un piccolo film neorealista), Luciano Bianciardi. Poi l’amicizia con Gaber (“Mio padre ed Enzo erano come due ragazzacci”, ricorda Dalia).
Già, Gaber compagno delle prime esibizioni musicali, con I due corsari, ma prima ancora come chitarrista ed Enzo pianista in gruppi formati da giovanissimi futuri grandi nomi come Celentano, Dallara, Tenco, Endrigo, Lauzi, Reverberi, Tomelleri… Il contrabbassista Giorgio Buratti ricorda che Enzo era prima di tutto, però, un jazzista, e che nella Milano dei localini di allora – Santa Tecla, Arethusa, Cab ‘64, il Lanternin, più tardi il Derby – si incontravano, si ascoltavano, si scambiavano esperienze giovani e meno giovani appassionati del genere allora (dopo il veto fascista) d’avanguardia. Lì Enzo conosce Franco Cerri, dieci anni più di lui, il più straordinario chitarrista jazz autodidatta, per Enzo “il mio secondo papà”. In quegli stessi locali si scopre il rock-and roll (preziose testimonianze Paté ha raccolto a questo proposito da Ricki Gianco, Nanni Svampa, Nando De Luca, Paolo Tomelleri) e fa i primi passi il cabaret.
Interessantissimo anche il capitolo sull’esperienza del Derby, dove si intrecciano nomi notissimi e mitici della comicità milanese e non solo: Cochi e Renato, Toffolo, Andreasi, Abatantuono, Teocoli, Walter Valdi. Enrico Intra, musicista e inventore del Derby, spiega la “cultura dell’incontro” che stava alla base dell’iniziativa. Notevoli le testimonianze di Lino Toffolo e di Lino Patruno.
Jannacci non ha avuto solo una “vena comica”. Ha avuto un fiuto pazzesco per riconoscere il “comico”. Due esempi su tutti, tra i personaggi che Paté ha interrogato: Massimo Boldi e Osvaldo Ardenghi. Boldi ricorda che al primo incontro, nel ‘68, Jannacci gli disse “tu sei un attore comico”; Ardenghi, bravissimo chitarrista, faceva l’operaio quando Jannacci l’ha preso con sé al Bolgia Umana insieme ai due calabresi Andrea Bove e Enzo Limardi, che ancor oggi quando parlano di Jannacci dicono il Maestro, quasi come i discepoli quando parlavano di Gesù.
Musica e comicità, jazz e cabaret. C’è qualcosa che li unisce? “Il concetto chiave è l’improvvisazione, spiega Cerri, in cui Jannacci era straordinario”. Improvvisazione come una performing art, un gesto artistico (e di vita) che non ripete un copione ma accade, perciò sorprende, spiazza e re-indirizza all’essenziale.
Cose che capitano, ascoltando certe “canzonette” di Enzo, o notando che la testata di street press più diffusa a Milano è Scarp de’ tenis, o frequentando il maestro… in compagnia di Paté.