Con un nome così, The War on Drugs/La guerra alla droga, potrebbe essere il gruppo preferito dell’ex ministro Giovanardi. Scherzi a parte, la band capitanata da Adam Granduciel, dopo l’addio risalente ormai già a qualche anno fa di Kurt Veil – che ha inaugurato una altrettanto valida carriera solista -, totalmente nelle sue mani, è una delle realtà migliori della scena musicale americana più recente. Lo dimostra l’ultimo bellissimo disco, “Lost in the Dream”, probabilmente il loro lavoro migliore. In giro da cinque o sei anni, i War on Drugs arrivano dalla zona di Philadelphia e la loro musica non è facilmente ascrivibile alle solite etichette buone per ogni stagione. Certo, le influenze di Adam Granduciel sono evidenti: voce strascicata e anfetaminica alla Bob Dylan periodo “Blonde on Blonde”, lunghe fughe chitarristiche che non possono ricordare quelle di Neil Young, gusto per ballate di tipo californiano.
Ma la costruzioni sonica delle sue canzoni apre altri ad orizzonti: l’uso massiccio del sintetizzatore con quei riff geometrici, ad esempio, e quella ritmica incalzante, ossessiva, spruzzata di elettronica, ricordano un gruppo come i Joy Division e comunque certa new ave dei primi anni ottanta. Un bel mix, che rende i War on Drugs uno dei pochi gruppi originali per il suono che sanno esprimere: pur rimanendo profondamente americani, riescono a mischiare in modo intelligente le carte, ed è raro di questi tempi avere una tale intelligenza sonica.
Un disco realizzato dopo qualche anno di pausa dal precedente, “Lost in the Dream” come ha raccontato Adam Granduciel, è il tentativo di mettere su canzone un brutto momento della sua vita, caratterizzato da una forte depressione. Si sente, in molti brani di questo disco, la disperazione, la sofferenza, l’angoscia che fanno capolino, ma si sente anche la voglia di fuggire lontano dalla malattia, ad esempio nell’epica, oltre sette minuti di strali chitarristi furiosi e devastanti, della bellissima An Ocean In Between The Waves. Ma inutile negarlo, il buio in cui può precipitare l’anima di un uomo c’è, e un titolo come Suffering la dice lunga in questo senso.
La capacità di Granduciel di giocare con i suoni, di esplorare, di sfidare si apprezza in pezzi come Disappearing dove atmosfere spaziali, magmatiche, come perdersi in un subconscio nel tentativo di nascondere quella sofferenza che lacera l’anima richiamano addirittura certe cose dei Pink Floyd (“The Wall”, il disco per eccellenza dedicato alla malattia mentale) con la voce in secondo piano, quasi venisse appunto da un sogno, rispetto agli strumenti. Simile ambientazione inizialmente per In Reverse, tra synth liquidi e riff concisi di chitarra, poi il brano, quasi otto minuti di durata, si trasforma in splendida ballata dylaniana. Burning, invece è giocato sul tempo apparentemente sbarazzino di un allegro rock’n’roll. Tanti gli approcci, tante i messaggi mandati da un’anima che vuole uscire allo scoperto da un incubo che può portare alla distruzione. E’ un disco catartico, “Lost in the Dream”: perduto in un sogno che è più un incubo, cercando di affiorarne fuori. La domanda che risuona fra i solchi non è da poco: cosa può salvarmi, la musica può essere abbastanza? Una domanda che, come nei dischi migliori, è valida per l’artista, ma altrettanto per l’ascoltatore.