Viviamo in un mondo dominato dalla tecnologia, spiato ventiquattro ore su ventiquattro dai social network. Senza rendercene conto siamo rimasti impigliati, intrappolati in quella smisurata, magica Rete che ha annullato le distanze, sì, ma non è riuscita a cancellare i confini, le barriere reali e immaginarie che deturpano il volto di questo miracolo chiamato pianeta Terra. Smisurate ferite più o meno antiche, più o meno cicatrizzate, molte delle quali ancora oggi secernono odio, violenza, rancore, intolleranza, paura del diverso. Inquietanti simboli di una lingua oscura e malvagia coniata da «uomini senza viso / Uomini senza Dio / Che pregano in banca / Che pregano in chiesa». Uomini che da sempre si rifiutano di riconoscere se stessi guardando negli occhi di altri esseri umani che considerano diversi e quindi sbagliati, inferiori, pericolosi a causa del colore della pelle, della lingua che parlano, del Dio cui rivolgono le loro preghiere.
Tutto questo la Rete non è riuscita a cancellarlo, anzi, per uno strano scherzo del destino sembra averlo amplificato: l’annullamento delle distanze non ha portato solo alla celebrazione della comunicazione e della fratellanza fra gli uomini; ha ingigantito a dismisura anche il loro ego e le loro paure. Tutt’a un tratto il nemico era alle porte, pronto a invadere “il nostro territorio”, a saccheggiare le nostre ricchezze, a contaminare la nostra lingua, a inquinare la nostra razza, a corrompere la nostra anima. Niente fratelli, solo creature pericolose e indegne, portatrici di calamità, malattie e sventure. Così ci siamo rinchiusi, barricati dapprima nei nostri confini, poi nelle nostre regioni, nelle nostre città, nelle nostre case, e infine nelle pagine dei nostri social network, dalle quali possiamo tranquillamente “stringere amicizia” con milioni di persone senza alcun rischio: basta una stretta di mano virtuale, tutt’al più ci si può beccare un virus, ma per quello c’è sempre un rimedio, e alla peggio si cambia il computer.
Ciò nonostante, nel XXI secolo, nell’era del digitale, succedono ancora dei piccoli miracoli.
Qualche anno fa, in quel di Brescia, un uomo ha ricevuto dal padre un dono inaspettato: un vecchio quaderno scritto in veneto contenente le memorie della sua bisnonna. Vincenza (Vizze) Buliumbassich, nel Natale del 1963, aveva consegnato il prezioso quaderno al maggiore dei suoi figli. Questi, a sua volta, lo ha consegnato a suo figlio, il quale lo ha tramandato al nostro uomo.
Chissà a quante persone sarà capitato, svuotando una vecchia casa di famiglia, di rinvenire vecchi quaderni o lettere. E chissà quante di queste testimonianze sono passate da una cantina a un’altra, finendo nel dimenticatoio o, peggio ancora, al macero…
Cose che capitano, certo, ma non se l’uomo in questione si chiama Michele Gazich. Come spiega nel booklet, il violinista ha immediatamente riconosciuto se stesso in quelle «parole di mare e di sangue, scritte senza nessuna pretesa letteraria e dunque perfette e ardenti nella volontà di preservare una storia di famiglia. Una storia insieme particolarissima e comune, come tutte le storie della gente povera». Il nuovo, affascinante album Una storia di mare e di sangue «è stato ispirato e guidato da quel quaderno; è un omaggio a quella grazia preziosa e involontaria».
«Perché abbiamo dovuto viaggiare per credere di essere vivi? La domanda scorre nel mio sangue. Come tanti, anche e soprattutto oggi, i Gazich hanno viaggiato, migrato, spinti dalla fame, dall’ambizione e dal sogno», spiega il nostro narratore, e nella traccia che dà il titolo al disco ci chiama a raccolta per raccontarci «una storia di viaggio / Una storia di mare e di sangue / Che scivola da Oriente / Che scivola ogni notte / Sulle corde del mio violino». Una storia che parte dall’odore salmastro di «tutti i porti da dove la mia famiglia è passata: Istanbul, Zara, Amburgo, New York».
Michele Gazich canta «la storia del mio cuore / Che nessuna madre potrà mai ritrovare / Non so dove l’hanno lasciato i miei padri / Non so che Dio pregare».
In un periodo in cui veniamo quotidianamente bombardati da sterili e pomposi discorsi nei quali non si fa altro che ribadire che l’Italia è prontissima a fare la sua parte per creare un’Europa diversa, migliore, Gazich sceglie significativamente di aprire l’illuminante saggio esplicativo contenuto nel booklet (Sul mare, nel sangue – Incroci e scambi, Oriente e Occidente, fascino e crudeltà: noi migranti) con le parole del poeta e saggista siriano Adonis: «Abbiamo bisogno di una nuova Europa che si presenti come progetto culturale universale in grado di andare oltre la barbarie scientifica, politica e confessionale, aperta a tutte le culture per attingere alle specificità di ciascuna, per costruire un futuro di uomini uguali, liberi e padroni del proprio destino» (da Oceano nero, Guanda 2006).
Mentre le nostre certezze si sgretolano e i nostri punti di riferimento svaniscono nel nulla, non è difficile immaginare come si sentisse la bisnonna di Gazich, Vizze, «nell’inverno del 1910, quando partì per raggiungere il marito Nicolò, che era emigrato in America e lì aveva trovato lavoro. Vizze allora aveva ventitré anni e, da sola, viaggiò in treno da Zara ad Amburgo: poi attraversò l’Atlantico in nave, per raggiungere infine Saint Louis, la porta del West. L’ho immaginata in mezzo all’oceano immenso a cantare una preghiera pronunciata tante altre volte di fronte al più noto Adriatico. Ho immaginato che la dicesse per darsi conforto, attraverso melodia e parole familiari, e per sentirsi in qualche modo ancora casa» (Preghiera della zente zaratina).
E mentre i telegiornali ci informano – stando bene attenti a non metterci troppa enfasi – che abbiamo superato la quota record di tre milioni di disoccupati, viene quasi naturale immedesimarsi nel marito di Vizze, Nicolò, che il 24 agosto 1911, «per l’esplosione di una mina in miniera, divenne cieco […] L’anno successivo alla perdita della vista tornò a Zara».
«In America non c’è posto per i ciechi e per gli storpi / È un attimo e torni slavo, turco, nero o italiano / E tramonta il grande sogno americano». La disaster song Un sogno americano avanza implacabile in un trionfo di fiddle, banjo e chitarre acustiche, mandando in frantumi le speranze di Nicolò, e con esse quelle di chissà quante altre persone che come lui hanno lasciato la propria casa in cerca di una vita migliore. Dalla loro parte si schiera anche Michele Gazich, il cui sogno americano «si è infranto qualche anno fa, nell’America violenta e triste di oggi, troppo simile a quella che incontrò il mio bisnonno: l’America dove ho scritto Guerra civile […] l’America che aggredisce e respinge chi non pone il denaro al centro della propria esistenza».
Come Nicolò, «il cieco affamato di luce», ci sentiamo persi, spaventati. Mentre viola e clarinetto dialogano fra loro nel registro basso, ci ritroviamo a brancolare nel buio, nell’incertezza, nel timore che non ci sia più nulla a cui guardare, nessun’altra speranza cui aggrapparsi. Gazich però ci tende una mano: «Finisterre», spiega, «è certamente il luogo dove tutto finisce, ma per poi ricominciare». Ecco allora che tutta la strada percorsa reca in dono una nuova consapevolezza di sé; nel buio appare l’esile ma testarda fiamma di una candela; il «digiuno dalle parole che troppo saziano e abbagliano» ci restituisce «parole povere e vere con cui ricominciare a parlarci».
«Parlarci» è l’unico, indispensabile antidoto che ci consentirà di sopravvivere al morso letale dell’incomunicabilità che divora i cuori degli esseri umani.
«Parlarci» è un dovere morale, perché chi si arrende al buio rischia di non riconoscere più nemmeno i propri fratelli, arrivando persino a ghettizzarli (Venezia 1948). Cantando del «cosiddetto “esodo” dei profughi istriano-dalmati», Gazich ci invita a confrontarci con il nostro passato. Racconta una storia che «non è stata esemplare, non c’è stato un Omero a narrarla, l’esodo non ha avuto il suo Mosè, il popolo non era certo “eletto”, semmai rifiutato, scartato. Ciò che io so, e su questo vorrei farvi riflettere, amici, è che c’è stato dolore, il dolore di chi resta per sempre apolide, senza una patria o una Terra Promessa». Il dolore di una donna inquieta e malinconica, che fino alla fine della propria vita si è chiestaPerché non siamo rimasti a bere latte sotto gli ulivi? «È una delle frasi che ricordo con maggior precisione tra quelle pronunciate da mia nonna, Angela Gherdovich, l’altra madre in questa storia di madri», continua Gazich. «La frase è immediatamente poetica nell’evocare una Dalmazia rurale, dove c’erano “latte”, cioè nutrimento, e “ulivi”, cioè pace».
Tra quegli ulivi è rimasta la sua casa. Ora giace abbandonata, senza tetto, come una bocca spalancata verso il cielo che elemosina «la carezza della neve […] Neve sacra e indifferente come è Dio: invocato, atteso, sembra non giungere mai. Brucia e si secca la gola di chi lo prega e viene meno il canto, come dice il salmo 69. L’ho recitato in croato», conclude Gazich, «l’altra lingua madre, insieme al veneto, l’altra lingua delle madri di questa storia di mare e di sangue».
Non abbiate paura di imbarcarvi insieme a Vizze. Pregate con lei, guardate Il mare oltre il giardino, solcate le acque dell’oceano scrutando il domani. Danzate, brindate al «mistero dell’amore», lasciate che il violino di Michele Gazich vi prenda per mano e vi conduca in questo straordinario viaggio alla scoperta delle sue radici, ma anche di voi stessi. Una storia di mare e di sangue è un’opera tanto affascinante quanto complessa, che racchiude in sé tutte le tappe del percorso umano e artistico del “violinista errante”, rielaborandole e trasformandole in qualcosa di unico e al tempo stesso universale.
Non a caso Gazich ha dedicato il lavoro a suo figlio Pietro, consegnandogli una bruciante testimonianza in musica e parole che un giorno potrà tramandare ai suoi figli insieme al quaderno di Vizze.
Mi raccomando, non dimenticate di portare con voi il libretto che accompagna il disco: vi servirà da mappa, da manuale di sopravvivenza, sarà una preziosa fonte di consigli, stimoli, spunti di riflessione. Divertitevi a esplorare le sue molteplici chiavi di lettura, e lasciatevi incantare dalle evocative illustrazioni di Alice Falchetti. L’immagine di copertina contiene già tutto ciò che vi serve sapere, basterà guardare con occhi innocenti, e ascoltare con cuore puro.
Strada facendo, visiterete nuove città, sentirete parlare lingue diverse e ascolterete il suono di diversi strumenti musicali suonati dai vostri compagni di viaggio: a cominciare da Francesca Rossi (voce, violoncello) e Marco Lamberti (chitarra classica e acustica, banjo, voce); poi Anna Compagnoni (liuto, tiorba, chitarra barocca), Marco Vignuzzi (zither), Alessandra Rossi (clarinetto), Pietro Campi (tromba), Paolo Costola (chitarra acustica, mandolino), Marco Fecchio (una splendida Gibson acustica del 1914). Infine, le molteplici incarnazioni del violino di Michele Gazich, che ha suonato anche viola e flauto croato in legno, e ha incrementato notevolmente l’intensità delle sue performance vocali (ascoltate Oci bei, oci de bissa).
E non stupitevi ma, al contrario, godete della cangiante natura letteraria e musicale di Una storia di mare e di sangue. Apprezzate le sue molteplici influenze, sfumature e fonti d’ispirazione: musica di matrice veneziana, musica da ballo, corali per banda, canzoni da battello, operine folk, valzer, blues, disaster song in stile Carter Family, ma anche manuali per gli sposi, prontuari per preti, i componimenti in lingua veneta di Andrea Zanzotto e i testi della biblioteca di Michele Straniero.
Non abbiate fretta di arrivare a destinazione, prendetevi tutto il tempo che vi occorre per portare a termine il vostro pellegrinaggio. E soprattutto non abbiate paura di sostare nell’incertezza, perché dal buio nasce la luce.