RYAN ADAMS/ “1989”: Taylor Swift, chi era costei?

- Luca Franceschini

Ryan Adams ne ha fatta un’altra delle sue, ha reinciso canzone per canzone tutto il disco di Taylor Swift, “1989”. Il risultato? Ce lo spiega LUCA FRANCESCHINI

ryan-adams_R439 Ryan Adams

Premessa numero uno. Ho solo una vaga idea di chi sia Taylor Swift. L’ultima volta che sono stato in America (quasi cinque anni fa, ormai) era già un’artista piuttosto famosa e in effetti l’ho sentita nominare per la prima volta lì perché da noi in Italia, se non sbaglio, non era ancora arrivata. Ma non è che mi sia messo ad approfondire il discorso: avrò anche dei pregiudizi, ma da quello che piace a troppe persone mi sono (quasi) sempre tenuto alla larga. 

Premessa numero due. Non conosco neppure Ryan Adams. L’ho sentito nominare, chiaro, ma per me è sempre stato “quello che ha avuto la sfiga di nascere quasi omonimo di Brian Adams, come diavolo avrà fatto a costruirsi una carriera sua, la metà di chi ha comprato i suoi dischi si sarà confusa con l’altro, come minimo”. Poi col tempo, grazie a qualche amico, ho scoperto che era tutt’altro che uno sprovveduto e che i suoi dischi godevano di grande considerazione tra le stesse persone che amavano gente come Josh Ritter o Damien Rice. Ma comunque, per una ragione o per l’altra, non mi sono mai messo ad ascoltare i suoi dischi. 

Premessa numero tre. Quando è uscito questo disco in cui Ryan Adams rifaceva interamente “1989” di Taylor Swift, canzone per canzone, in rigoroso ordine di tracklist, ho deciso che mi ci sarei buttato a pesce. 

Se ci pensate, l’operazione è assurda, la classica cosa che ti fa dire “o è pazzo o è un genio” e probabilmente nel suo caso, è semplicemente tutti e due. 

Del resto, cosa si potrebbe pensare di uno che durante un suo concerto, pretende l’allontanamento immediato di un tizio che ha avuto la malaugurata idea di gridargli: “Facci “Summer of ’69!””, salvo poi suonarla effettivamente, qualche anno dopo? O uno che ha registrato un intero ep in stile hardcore (guarda caso, anch’esso intitolato col nome di un anno, il 1984) per omaggiare un tipo di musica con cui è cresciuto? 

Ma comunque di episodi del genere, con artisti famosi che rifanno interamente dischi di altri artisti famosi, ne erano già accaduti. Di sicuro lo hanno fatto i Dream Theater, che nel corso di alcuni concerti si erano divertiti a reinterpretare dischi storici come “The Number of The Beast”, “Master of Puppets” e “The Dark Side of The Moon”. 

Il disco dei Pink Floyd lo hanno ripreso qualche anno fa anche i Gov’t Mule di Warren Haynes, che ne hanno registrata una loro versione col titolo “Dark Side of The Mule”.

Ma qui siamo oltre: un cantautore affermato, dalla scrittura intelligente e profonda, che si mette a suonare la canzoni plasticose e senz’anima di una reginetta del pop che scala le classifiche. In poche parole, dovevo procurarmelo per forza. 

Perché? Direte voi. Perché appunto, una cosa così è talmente folle, anche solo a pensarla, che una chance bisognava per forza dargliela. 

E mai decisione si rivelò più azzeccata: “1989” in questa nuova versione è un disco meraviglioso. Musicalmente siamo su territori classicamente rock, un po’ roots, un po’ folk, un po’ country, che mi ha a tratti ricordato il songwriting di Amy MacDonald, una cantautrice “leggera” ma anche di una certa sostanza, che ho sempre amato molto. 

Ho così scoperto che l’idea di rifare l’album (registrato in modo artigianale su un normalissimo quattro piste, anche se a sentirlo non si direbbe proprio, vista la pulizia e la cura del suono) gli è venuta lo scorso Natale, il primo passato in solitaria, dopo il divorzio dall’attrice e cantante Mandy Moore. “1989” era uscito da un paio di mesi e Ryan s mise ad ascoltarlo in modo ossessivo, trovandolo evidentemente tanto bello da decidere di coverizzarlo interamente. 

Stando a dichiarazioni rilasciate di recente, l’idea sarebbe stata quella di fare una cosa simile a quella che Bruce Springsteen tentò nel 1982: la registrazione casalinga di un disco che rispecchiasse la crisi interiore che stava attraversando in quel periodo. 

Del resto, il nostro è sempre stato ben attivo con le cover: la sua versione di “Wonderwall” degli Oasis è apprezzatissima dai fan ma ha interpretato altri brani celebri come la “Down in a Hole” degli Alice in Chains” o la “Mother” di Danzig, sempre con risultati ottimi, a detta di chi lo conosce. 

“1989”, a quanto pare, non fa eccezioni: gli arrangiamenti sono efficaci, con un feeling molto live (naturale, con un quattro piste a disposizione), che passa disinvoltamente dall’elettrico all’acustico, l’interpretazione vocale decisamente intensa, al servizio di brani semplici ma davvero belli e per nulla banali. Ce n’è per tutti i gusti: dalle cavalcate rock di “Welcome to New York” e “Style”, alle melodie perfette di “Blank Space” e “Bad Blood”, a ballate commoventi come “I Wish You Would” e “Out Of The Woods”, per chi scrive l’highlight assoluto del lavoro, di una densità emozionale che raramente ho sentito raggiungere dagli artisti ascoltati quest’anno.

Sono una cinquantina di minuti e scorrono via che è una meraviglia. E c’è tanta, tantissima personalità dietro a questo disco: nessuno potrebbe immaginare che si tratta di cover, non importa quanto bene conosciate l’originale. 

Ero confuso, a questo punto, devo ammetterlo. Avevo convissuto per anni con questa idea che Taylor Swift scrivesse canzonette e potesse piacere solo alla massa ignorante e consumista dell’opulenta civiltà occidentale. Adesso però, di fronte ad un lavoro del genere, avrei dovuto fare marcia indietro e dichiarare che sì, forse qualcosa di buono c’era, dopotutto, in questa biondina di ventiquattro anni sulla cresta dell’onda da quando era una teenager. 

In effetti stavo per scrivere un pezzo che diceva più o meno questo: che noi ascoltatori “colti”, noi “intenditori” di musica siamo un po’ troppo esigenti ed un po’ troppo snob, quando si tratta di esprimere pareri su ciò che va per la maggiore. E che, a guardare bene, non tutto ciò che vende deve per forza fare schifo per definizione. 

Ecco, stavo per scrivere un articolo per dire questo e, l’avessi fatto, non avrei sicuramente sbagliato anche se avrei scoperto l’acqua calda: di roba che vende bene ma che ha anche una sua dignità ce n’è parecchia in giro, sono sicuro che anche i peggiori snob alla fine, sotto sotto, lo ammetteranno almeno a loro stessi e sono sicuramente più di quello che si immagina, gli esperti che hanno qualche disco mainstream nella loro collezione di dischi (ben nascosto, però!). 

Questo articolo alla fine non l’ho scritto e la ragione è molto semplice: poco prima di iniziare mi sono detto che, forse, più che altro per dignità professionale, prima di scrivere qualcosa su un disco di cover, sarebbe stato un bene andare ad ascoltare gli originali. 

Bene, è a questo punto che ho scoperto che “1989” di Taylor Swift suonava decisamente brutto alle mie orecchie o che, se proprio non vogliamo esagerare, non mi suonava come un bel disco. Il sound è smaccatamente pop, affonda negli anni ’80 con soluzioni che mi sono parse retrò, come in certi dischi di Madonna o di Cindy Lauper ma con una qualità del songwriting decisamente più bassa. È un lavoro che ho trovato superficiale, a tratti quasi volgare, cantato in maniera piuttosto ordinaria, o con la voce spesso talmente effettata che è difficile capire se la ragazza abbia i numeri o meno. 

Ma forse questa disamina è inutile: non sono bravo a descrivere la musica e il tema di questo pezzo non è comunque la Swift. 

Diciamo solo che non ho ritrovato niente, assolutamente niente, di ciò che mi aveva affascinato della versione di Ryan Adams. Anzi, paradossalmente, i miei brani preferiti di quel disco, nel disco originale si rivelavano essere i peggiori. Ascoltando con attenzione, qualche bella idea c’era anche (dopotutto il cantautore di Jacksonville non ha scritto questi brani da zero, è partito pur sempre da versioni preesistenti)  ma l’ho trovata solo perché avevo imparato ad apprezzarle nella loro versione maschile. 

Allora qual è il punto? Il punto è probabilmente un’altra scoperta dell’acqua calda ma arrivato fino a qui non ho niente di meglio da rivelare: gli arrangiamenti, in una buona canzone, contano quasi più della canzone stessa. Non c’è da stupirsi, in effetti: le note sono sette ma ciò che sta attorno alle note è potenzialmente infinito, se ci pensate. 

Si dice che di solito un cantante è un grande interprete quando aggiunge qualcosa di suo al brano che decide di eseguire, quando riesce in qualche modo a permearlo della propria personalità. Ecco, Adams ha fatto qualcosa di più in questo caso: ha letteralmente stravolto i brani della Swift, fino quasi ad avvicinarsi al livello della riscrittura. Un amico che come me scrive di musica per passione (ma che è molto più preparato del sottoscritto) mi ha spiegato che Ryan Adams è geniale nell’arte dell’arrangiamento e che quando si cimenta con lavori di altri è quasi più bravo che nelle cose sue. In effetti, ascoltando la sua interpretazione di “1989” senza leggere i testi, si può sentire tutto il dolore, la frustrazione, la nostalgia e insieme la speranza che qualcosa di nuovo possa capitargli nella vita. Passione, rabbia, dolcezza, disincanto, tutto concentrato in cinquanta minuti di musica. 

E io davvero non lo so di cosa parlino queste canzoni (atteggiamento poco professionale ma cercate di capirmi). Però quando mi è stato raccontato quell’aneddoto di cui sopra, di lui nei giorni di Natale che ascolta e riascolta quell’album da poco uscito, improvvisamente, non credo sia suggestione, l’ho ritrovato tutto nei solchi di questo cd. 

Quindi, in definitiva, Taylor Swift ha sicuramente scritto qualcosa di importante ma è stato solo lo sguardo folle e geniale di Ryan Adams che ha fatto in modo che ce ne potessimo accorgere tutti.  

Adesso però non ho più scuse: i dischi di questo qui me li devo proprio andare ad ascoltare… 





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