I telegrammi mi hanno fatto sempre paura, specie in quell’attimo quando il giorno è finito e comincia a far buio. Arrivano a tradimento e sono sempre pieni di ombre e cose non dette. Stasera, ad esempio, alla fine di una giornata grigia e piovosa, mi sono preso uno spavento che ancora adesso scuote i miei nervi. Mi ero appena seduto con un tazzone di latte sulle ginocchia e un pezzo di pane imburrato e miele tra le mani. Me ne stavo con la schiena appoggiata alla poltrona di cuoio che ho sistemato in cucina, accanto alla stufa di ceramica, e ascoltavo in silenzio il suono della pioggia torrenziale che cadeva ormai da ore. In cucina ci vivo, è quello il mio posto preferito. Da quando Katherine è morta questa casa è diventata troppo grande per un uomo solo e io, che in fondo sto fuori quasi tutto il giorno, una casa intera non potrei nemmeno godermela.
Alla segheria dove lavoro, giù al fiume, passo tutta la giornata a tagliare grossi tronchi. Dalle sei del mattino fino alle cinque di sera. Una volta segati, attraverso uno scivolo li avvio dentro un canalone e la corrente fa il resto: trascina a valle quei blocchi di legno grezzo sfrondati dai rami. Lì vengono caricati su grossi camion e portati in città, alla fabbrica di mobili. Al mobilificio lavorano quasi tutti. Nameless è un posto piccolo, lo dice anche il nome, e il mobilificio è stata una grande fortuna per molti. Se non ci fosse, l’alternativa sarebbe stata andar via, in cerca di fortuna altrove.
Anche Katherine lavorava in quel posto. Era addetta alla lucidatura. Passava tutto il giorno una speciale cera sui mobili appena assemblati, un prodotto che ne esaltava il colore e le venature. Ci siamo conosciuti lì, un giorno che ero sceso anch’io a valle e poi mi ero spostato in città. Nel giro di tre mesi ci siamo sposati, poi, dopo altri sei, lei è morta. Ci fu un corto circuito e il magazzino andò a fuoco. C’erano troppi mobili dentro e le porte di sicurezza erano praticamente inaccessibili. Morirono in tre, fortunatamente d’asfissia, non bruciarono: Willy Murry, il magazziniere, Frank Harris, il ragioniere, e Katherine che, in quel momento, non doveva essere nemmeno lì. Quando divampò il fuoco, si chiusero in bagno per ripararsi e lì le fiamme non arrivarono. Arrivò solo il fumo. Morirono senza bruciare.
Adesso, da allora, sono passati già sette anni e mi sto abituando all’idea di non vedere più Katherine per casa. E’ strano, in fondo siamo stati insieme meno di un anno e mi manca come se fossimo stati vicini una vita. Ma forse niente è troppo breve per un amore e forse è questa la spiegazione al senso di vuoto che non riesco a sciogliere. Adesso, però, da quando va meglio, sto pensando di venderla questa casa. E’ troppo grande per un uomo solo, e poi non ha senso vivere in un posto dove c’è la stanza di una bambina che non esiste. Non è mai esistita. Katherine, quando è morta, era incinta di cinque mesi e Doreen (era una bambina e l’avremmo chiamata così) se ne andò insieme a lei.
La casa è piena di nostalgie, questo è facile da capire, ma io sono fortunato: ci sto solo poche ore, la sera. Vivo praticamente in cucina. Vado a dormire intorno alle dieci e dalle sei, quando rincaso, sino a quando mi corico, resto solo in questa stanza che ormai è diventata per me tutta la casa. C’ho messo un divano che fa anche da letto e ho sistemato la vecchia poltrona di cuoio marrone accanto alla stufa in ceramica. Così, in poco spazio, posso fare le cose che più amo: leggere, bere e mangiare, e guardare in Tv vecchi film in bianco e nero. Tutto in questo posto ha una sua cadenza e un suo ritmo. E’ come se attorno mi fossi costruito tanti piccoli quadrati dai quali non esco e mi danno sicurezza. Il quadrato della poltrona, quello del letto, del libro, del pollo fritto e del vino, della stufa in ceramica e della Tv, che poi è il quadrato che preferisco. Tutto scorre liscio, calmo e silenzioso, senza che nulla possa far saltare questo equilibrio e questa tranquillità artificiale. Nulla, tranne l’arrivo di un telegramma, come ormai sta accadendo da un anno.
Anche stasera ho sentito quei passi pesanti che si avvicinavano. Sempre più vicini e ancora più pesanti stasera, con quel rumore di acqua schiacciata. L’ho sentito che imprecava, il postino. La stradina che dal bosco porta a casa è piena di buche che non ho coperto. Col mio pick-up ci passo bene e non serve chiuderle. Qui non viene mai nessuno, tranne la posta. Anzi, tranne i telegrammi, perché non ricevo altro se non il catalogo di vendita per corrispondenza che mi mandano ogni anno e che mi serve per comprare un paio di camicie nuove, cambiare le scarpe quando sono alla fine, e guardare le ragazze nella sezione dedicata alla biancheria intima. Ma da un anno, ogni mese, all’inizio, l’equilibrio nel quale vivevo perfettamente è stato rotto dall’arrivo di questo telegramma che mi rende inquieto.
Stasera però non ho aperto. Ho sentito i passi molto prima che arrivassero a pestare gli assi di legno sulla veranda e così ho spento la luce e lo stereo. Ah, questo non l’ho ancora detto. Insieme a tutto il resto, alla poltrona in cuoio, alla stufa in ceramica, al divano letto, in cucina ho portato anche il mio vecchio impianto Hi-Fi. Originale, dei primi anni ’70, un Woxson. La musica – nemmeno questo ho detto ancora – insieme a leggere, mangiare e bere, e guardare vecchi film in bianco e nero alla Tv, è un’altra mia grande passione. Prima di sedermi, col tazzone di latte sulle ginocchia e il pane imburrato col miele tra le mani, avevo messo sul piatto dello stereo un disco di Roy Buchanan. Un chitarrista eccelso, tanto bravo quanto sconosciuto, morto giovane. Aveva quarantanove anni ed è sepolto non molto lontano da qui, in Virginia, al Columbia Gardens, il cimitero di Arlington.
Bene, mi ero appena messo ad ascoltare il suo primo disco, quello che porta il suo stesso nome, Roy Buchanan, uscito per l’etichetta Polydor nell’agosto del ’72, quando ho sentito i passi pesanti e acquosi del postino. Così ho spento tutto velocemente, luce e musica, e sono rimasto in silenzio dietro ai vetri nascosto dalla tenda. “Un telegramma devi firmarlo – mi sono detto – ma questa volta non apro. Penserà che in casa non c’è nessuno e se lo porterà via. E così farò le prossime sere se tornerà. E’ prevista pioggia tutta la settimana e potrò sentirlo arrivare in anticipo e così fregarlo”.
Il postino è rimasto fermo dieci minuti dietro la porta, sotto la pioggia. Dieci lunghissimi minuti, come se sapesse che dentro c’ero anch’io. Ha suonato solo una volta, poi è restato fermo. Sono sicuro lo sapesse che dentro c’ero anch’io. Lo vedevo, immobile, sotto la pioggia, dietro la porta. Poi l’ho sentito andare via. I passi sempre più vicini e pesanti, man mano sono diventati lontani e attutiti. Ho aspettato mezz’ora in silenzio. Fuori la pioggia continuava a scendere torrenziale. Poi ho riacceso la luce della cucina e posato la puntina sul disco. “Sweet Dreams”, il primo brano dell’album, uno strumentale, immediatamente si è messo a girare nell’aria. E’ stato allora che hanno suonato nuovamente alla porta. Ho rifatto la strada dalla cucina all’ingresso, ho scostato la tenda e mi sono visto attaccato ai vetri il faccione sorridente del postino con un telegramma in mano. Aveva un sorriso bonario all’apparenza ma un dente d’oro, un incisivo, lo trasformava in un ghigno sinistro.
– “C’è da firmare, signor Carver”.
– “Si, arrivo, le apro subito”.
– “Raymond Carver … ecco, un telegramma per lei. Il solito che arriva ogni mese all’inizio”.
– “Si … certo. Grazie”.
– “Arrivederci signor Carver. Buonanotte”.
– “Addio, signor postino”
Ero di nuovo con quel telegramma tra le mani. Come ogni mese. Il postino era definitivamente sparito in fondo alla strada. Sul piatto il disco si era inceppato. “Sweet Dreams”, il primo brano, si era bloccato proprio mentre il postino suonava. Adesso avevo di nuovo quel telegramma tre le mani e l’ho aperto. Anche questo, come tutti gli altri, mi raccomandava la stessa cosa: “Abbi cura di te”. Firmato: “Katherine”.
Mi sono seduto sulla poltrona di cuoio, dalla stufa in ceramica arrivava un soffio di aria calda. La Tv era spenta e il disco finalmente continuava a suonare senza interruzioni. Mi sono addormentato, forse per più di due ore ho dormito e ho fatto sogni dolci, come nella canzone. “Sweet Dreams”. Poi mi sono svegliato, perché hanno suonato di nuovo alla porta. Ormai era notte, fuori, nel buio, c’era solo la luce della mia cucina e io non ho aperto.