È uscito a fine giugno The Monsanto Years, l’ennesimo album di uno dei mostri sacri assoluti della musica nordamericana, il canadese trasferito negli Stati Uniti Neil Young, che a novembre varcherà la soglia dei 70 anni vissuti in musica. Occorre dirlo subito – e lo si capisce già dal titolo – l’intero album è un’invettiva contro le grandi multinazionali del cibo, in particolare la Monsanto, appunto, ma anche Starbucks (catena di caffè e simili) e Safeway Inc., la seconda più grande catena di supermercati in Nord America con 1694 negozi situati negli Stati Uniti centrali e occidentali e nel Canada Occidentale. Ma su questo torneremo. Prima inquadriamo un minimo di chi stiamo parlando.
Neil Young è da sempre icona alternativa (fin da quando a fine anni ’60 si trasferì negli Stati Uniti dall’Ontario da clandestino e senza permesso di lavoro, né di soggiorno) di quello che una volta si chiamava Country-Rock, e qui da noi prese il nome di West Coast.
Per la verità fra tutti gli artisti appartenenti a quel mondo, il canadese è stato sicuramente quello che ha sperimentato di più (insieme – ma in altri campi semantici e musicali – all’altra grande canadese, Joni Mitchell), passando nel corso di ormai quasi 50 anni di carriera attraverso alti e bassi e scorribande fra sonorità e generi diversissimi l’uno dall’altro. Dopo le ultime peripezie (per citare solo gli ultimi tre lavori in ordine di tempo) fra pillole psichedeliche, un album orchestrale e delle cover registrate in bassa fedeltà in una specie di cabina del telefono, qui torniamo ad un suono tipicamente Young-iano, elettriche distorte, basso e batteria, che vorrebbe ricordare il marchio di fabbrica acido dei Crazy Horse. Ma qui i compagni di merende elettriche sono due dei figli di Willie Nelson, sicuramente il musicista più attivista e qualunque cosa finisca per –ista della musica nordamericana, sempre in prima linea nel difendere ambiente e diritti umani. Evidentemente buon sangue non mente.
Se buon sangue non mente per quanto riguarda l’attivismo politico, per la verità il suono pur cattivo e sporco difetta di qualcosa in termini di convinzione. Insomma i duetti fra Neil e Frank Sampedro (chitarrista dei Crazy Horse) hanno un altro PH: lì il tasso di acidità si elevava a colpi d’ascia ben assestata, nonostante i quasi 70 anni dell’uno e i 65 dell’altro. Qui alcuni dei brani in cui parte uno dei classici, lunghi assoli fanno desiderare un finale anticipato.
Le canzoni: fra i 9 pezzi dell’album (e lo dico con un po’ di morte nel cuore, perché per anni il vecchio Neil è stato per me e per molti un faro assoluto) non c’è nessun guizzo memorabile. L’impressione è che la prevalenza sia stata data alla protesta, al voler dire a tutti i costi delle cose contro l’omologazione alimentare, la chimica che stravolge le colture, l’OGM e tutto il contesto, con dei vaghi riferimenti alla cultura contadina tradizionale. Tuttavia la musica, genericamente rock, seppur portata con il classico passo pesante e trascinato, sembra giustapposta, incollata ai testi ma non lavorata più di tanto. Non c’è l’alchimia presente nelle grandi canzoni, l’intreccio magico fra musica e testi; la musica è rock sporco ma generico e i testi protestano. That’s it.
Non è semplice cogliere i riferimenti alla vita politica ed economica statunitense di cui sono piene le liriche. Quello che è certo è che il vecchio Neil si scaglia contro le grandi industrie attive nel campo delle biotecnologie alimentari. Lo stesso titolo dell’album, The Monsanto Years si riferisce direttamente, come già ricordato, alla Monsanto Company, una delle 10 industrie chimiche più importanti degli Stati Uniti.
Alcuni ritornelli suonano fra il grottesco e addirittura l’umoristico di bassa lega, come quando in A Rock Star Bucks A Coffee Shop un coretto a tre voci intona Mooon-San-To che rima nel verso successivo con Let our farmers grow what they want to grow, cioè lascia che i nostri contadini coltivino quello che vogliono.
Sinceramente fanno un po’ ridere slogan populisti come Too big for fail, too rich for jail cantati da un artista ricchissimo, viziato, che colleziona auto d’epoca e costosissimi treni elettrici e si fa costruire apposta un impianto ad altissima fedeltà per la sua Lincoln del ’53 (o del ’57 che è lo stesso) che però è rigorosamente alimentata ad energia elettrica. Suona tanto come la protesta di un hippie forse ancora indomito dentro, ma che ormai ha più l’aspetto (e la sostanza) di un miliardario annoiato.
C’è un altro fatto da annotare. Su youtube ci sono una serie di video in cui i componenti dei Promise of The Real, la band che accompagna Young in questo lavoro raccontano come è nata la possibilità di lavorare insieme. Neil Young era ospite ad un concerto in cui loro suonavano, e ad un certo punto hanno imbracciato gli strumenti ed hanno suonato insieme a lui. Il loro idolo. Qualche giorno dopo Young li ha chiamati chiedendo se volevano registrare un album con lui. La vecchia star annoiata ha sempre bisogno di stimoli nuovi, di occasioni fresche per restare giovane.
Consentitemi un ultimo nota bene: Young ha scritto un lungo post su Facebook con parole di lode per l’enciclica di Papa Francesco, mettendone in luce naturalmente gli aspetti legati al rispetto della terra e dell’ambiente. Pochi giorni dopo il Papa Emerito Benedetto XVI ricevendo due lauree Honoris Causa ha parlato della musica e del fatto che la grande musica è sempre in relazione con tre elementi: l’amore, il dolore e il divino, che li tocca tutti. Bene, il vecchio Neil ci convinceva di più quando parlava – a volte in modo struggente – d’amore, piuttosto che delle persone che vogliono ascoltare canzoni d’amore per non pensare ai problemi del mondo (People Want To Hear About Love). Qui sinceramente ci cattura meno.