LEONARD COHEN/ Morte di un donnaiolo: c’è una crepa in ogni cosa e da lì passa la luce

- Paolo Vites

A 82 anni è improvvisamente scomparso Leonard Cohen, leggendario poeta e cantatuore canadese. Aveva da pochissimo pubblicato un nuovo disco. Il ricordo di PAOLO VITES

Leonard-Cohen-ok_R439 Leonard Cohen

E’ una giornata di sole oggi a Los Angeles. D’altro canto a Los Angeles c’è sempre il sole. L’anziano signore, sempre elegantemente vestito, sobrio ma con cura, si gode quei raggi caldi nel piccolo giardino della sua modesta abitazione. Il lusso e quel genere di cose non l’hanno mai interessato più di tanto. 

Era cresciuto sì in una grande e bella casa del quartiere ebraico, uno dei più signorili di Montreal in Canada, ma nella vita si era abituato sempre allo stretto necessario. Fin da quando poco più che ventenne aveva vissuto in una stanzetta fredda e minuscola a Londra, per scrivere il suo primo romanzo. 

Oggi a Los Angeles è una bella giornata, ma lui sente una inquietudine strana, un dolore sconosciuto. Non si preoccupa più di tanto. Ha sempre convissuto con il dolore, la malinconia e la tristezza e alla fine ha capito che sono le cose che danno gusto alla vita: “C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che passa la luce”. La sofferenza per troppo amore. Ogni tanto sorseggia una tazza di caffè nero, si accende anche una sigaretta. Quando aveva smesso di fumare, più di vent’anni fa, con una battuta aveva detto: “Ricomincerò a 80 anni”. Era il suo classico umorismo ebraico, in realtà voleva dire che a 80 anni non ci sarebbe mai arrivato. Aveva sempre aspettato la morte nel corso della sua vita. Aveva flirtato con lei, l’aveva derisa e l’aveva implorata, specie quando la depressione si era fatta forte e devastante tanto che i suoi musicisti lo avevano soprannominato “Capitan Mandrax”, dall’anti depressivo che prendeva a dosi massicce quando era in tour, per darsi la forza di salire sul palco e cantare, lui uomo discreto, riservato e umile. Una volta, in Israele, mentre cantava So Long Marianne era scoppiato in lacrime e aveva interrotto il concerto. Poi gli era venuta una idea assurda: un intero tour negli ospedali psichiatrici, qualcosa che nessuno aveva e avrebbe mai fatto. Non sapeva più come era venuta fuori quell’idea, forse perché lui con quella gente si trovava in sintonia più che con quelli che stavano fuori dei manicomi.

“Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome non è Leonard Cohen” aveva scherzato quando era stato celebrato alla Rock’n’roll Hall of Fame qualche anno prima, davanti a quel Jon Landau che con quelle parole aveva lanciato un vero rocker, Bruce Springsteen. Già, lui non era mai stato parte di quel circo, pensava.

Adesso, che ha 82 anni ed è meravigliato lui stesso di essere ancora vivo, si concede qualche sigaretta. Beve caffè, aspira il fumo e socchiude gli occhi. E’ incredulo di quante immagini gli scorrono improvvisamente davanti. Quanta bellezza. “Dance me to the end of love”, fammi ballare fino alla fine dell’amore. Vede Idra, l’isoletta greca splendente nell’azzurro accecante del mare, vede una donna bellissima con un bambino piccolo. Vede se stesso attaccato giorno e notte alla macchina da scrivere. Gli scappa una risata: che pazzo che ero, quindici giorni digiunando fino ad avere le visioni per trovare ispirazione. Quella volta che mi trovarono nudo ad arrampicarmi su una collinetta, come un animale, il cervello impazzito.

Lei si chiamava Marianne. Da quando è morta, qualche mese fa, continua a pensarla. Non si frequentavano più da decenni, ma adesso è di nuovo quella Marianne giovane e bellissima che aveva avuto la pazienza di stargli accanto a lungo, ispirandolo a scrivere tante canzoni. Quando è morta, aveva capito che il tempo stava per finire anche per lui.  

Qualcuno gli disse che Marianne stava morendo, non si vedevano da decenni. Allora le aveva scritto un bigliettino: “Sento che l’amore non muore mai e che quando c’è una emozione talmente forte da far scrivere una canzone su di essa, allora c’è qualcosa riguardo quell’emozione che è indistruttibile. E allora, Marianne, è arrivato questo tempo in cui siamo entrambi molto vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi. Penso che ti seguirò molto presto. Sai che ti sono così vicino che se allungassi la mano, potresti toccare la mia. E sai che ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza. Ma non c’è bisogno che ti dica più nulla di tutto questo perché sai già tutto. Adesso, voglio solo augurarti buon viaggio. Addio vecchia amica. Amore infinito. Ci vediamo lungo la strada”.

Dicono che lei, Marianne, sul suo letto di morte, abbia pianto qualche lacrima mentre le leggevano questa parola e sia morta con un sorriso dolcissimo. “Addio Marianne, è tempo che cominciamo a ridere e piangere e piangere e riderci sopra a tutto quanto di nuovo“.

 

Dicevano che fosse stato “un donnaiolo”, tante bellissime amanti per tutta la vita, ma lui ci rideva sopra, dicendo che piuttosto la gran parte della sua vita l’aveva passata da solo e che con le donne era un disastro. Certo che in quella foto della copertina di quel disco pazzesco, imbottito di cocaina, pistole e tutta la decadenza lussuriosa della metà degli anni 70, sembra una sorta di Humphrey Bogart della canzone, con quelle meravigliose donne accanto. D’altro canto quel disco si intitolava “morte di un donnaiolo”. Maledetto umorismo ebraico. 

Tutti i più grandi geni del 900 sono ebrei: Dylan, Woody Allen, Einstein, ha detto qualcuno. Già lui era canadese, ma forse era il più grande genio di tutti loro. Sicuramente quello che portava dentro il dolore più grande, fino a sentire che “c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che passa la luce”. Solo nel dolore e attraverso il dolore passa la vita e si illumina.

 

E quel famoso impermeabile blu che fine aveva fatto, gli venne improvvisamente da pensare. Il caffè si era raffreddato, ma non si sentiva di andare dentro in cucina a versarsene un’altra tazza. Allora si accese un’altra sigaretta e pensò ai gironi di quell’inverno dannatamente freddodi tanti anni prima a New York, in Clinton Street, alle quattro del mattino. Ripensò a lui e a lei, quel triangolo impossibile, quel desiderio di carne e sangue e passione e amore e sangue devastante, quel desiderio di possesso e di perdizione che lo aveva perseguitato per gran parte della sua esistenza: “E che posso dirti fratello mio, mio assassino, che cosa posso dirti? Mi sa che mi manchi, mi sa che ti ho perdonato, sono felice di essermi imbattuto in te, e se ritornerai mai da queste parti, per vedere Jane o vedere me, be’ il tuo nemico sta dormendo e la sua donna è libera“.

Spense la sigaretta, sentiva delle fitte al suo vecchio cuore. Non era preoccupato: “Sono pronto a morire, spero solo non sia doloroso” pensò. “Hineni, hineni; I’m ready, my lord“. Sente le voci dei profeti della sua religione, vede le mura di Gerusalemme, vede il Cristo che spezza il pane e versa il vino su quel tavolo. Sente Abrano, “hineni, hineni, sono pronto mio Signore a sacrificare mio figlio Isacco”. E’ anche una antica preghiera del suo popolo, per prepararsi alla morte con umiltà, rivolta a Dio. Ha usato quei versi nel suo ultimo disco, è appena uscito, ho fatto in tempo a finirlo pensa soddisfatto. 

La volontà di servire il mio destino, ecco cosa significa. Se devo morire, lo accetto e sono pronto. 

Ma poi gli viene in mente Suzanne. Non avevano mai fatto l’amore, a lui bastava guardarla incantato, mentre ogni tanto dava un’occhiata alla statua della Madonna, là sotto, nel porto della città, protettrice dei marinai. Una signora di classe purissima, anni dopo aveva saputo che si era ridotta a vivere miseramente in una roulotte nei dintorni di Los Angeles, nel deserto: “Ti diamo un cuore grande ma se ti metti a bere vino comincerai a odiare il mondo. La luna è tua sorella ma se prendi delle pillole per dormire ti troverai in compagnia di donne infelici. Ogni volta che cerchi di afferrare l’amore perderai un fiocco di neve dalla tua memoria”.

Forse per quello un giorno aveva preso qualche vestito da poco ed era salito sulla montagna. Si era chiuso in una celletta di un monastero buddista e per dieci anni nessuno lo aveva più visto. Pregava e meditava, meditava e pregava. In fondo tutto quello che aveva sempre desiderato era essere come un uccello sul filo della luce: tutto quello che ho desiderato è stato di essere libero, alla mia maniera. Come un ubriaco nel coro dei canti della messa di Natale.

Poi era sceso dalla montagna, la depressione era sparita e non sentiva più bisogno di abusare di alcol e droghe. Senza sapere come e perché, era finalmente in pace con se stesso. “L’unico momento in cui si può vivere qui comodamente in mezzo a tutti questi conflitti assolutamente inconciliabili è in quel momento in cui si abbraccia tutto e tu dici: “Guarda, io non capisco un cazzo – Hallelujah“. Ecco, abbracciare tutti, per quello era tornato a fare concerti in tutto il mondo. Cantava e si inginocchiava, stringeva in mano un rosario e pregava, si toglieva il cappello davanti ai suoi musicisti per ringraziarli di quanta bellezza mettevano nelle sue canzoni. Era bello, finalmente, cantare in pubblico. Furono i suoi concerti più toccanti e riusciti di tutta la sua carriera. Lo dicevano tutti e ci credeva anche lui.

Fece qualche passo nel giardino, sorrideva e pensava a sua figlia e ai suoi nipotini che abitavano nella stessa casa. A suo figlio che lo aveva aiutato a mettere insieme quell’ultimo disco. Era felice.

Il vecchio profeta, l’ebreo errante che aveva visto ogni orrore era tornato a casa. L’orrore: “Dammi indietro il muro di Berlino datemi Stalin e San Paolo ho visto il futuro, fratello: è un omicidio“. Una canzone che sembrava descrivere un mondo in cui il relativismo morale ha creato il caos ( “nulla si può misurare più” – “abbiamo superato l’ordine dell’anima”) e anche la possibilità di genocidio, o la morte di innocenti in una cultura di morte. 

Sentì che ormai il tempo stava finendo, ma non aveva paura. Non si sentiva particolarmente religioso, ma aveva sempre sentito una Presenza ben precisa, quasi fisica, nella sua vita. Forse era giunto il momento di incontrare quella Presenza. Era giunto il momento in cui lasci alle spalle il tuo capolavoro personale e ti abbandoni al capolavoro supremo.

Entrò in casa. Prese la sua bella giacca nera e la indossò. Aveva sempre amato vestirsi così. Suo padre gli aveva insegnato l’eleganza e lui era un gentiluomo che apparteneva a un mondo che ormai non esisteva più. Si sdraiò sul letto. Chiuse gli occhi. “Adesso cerco di trattare. Offro boccioli e gemme per il Suo amore. Mendico la Sua misericordia. Lentamente Lui cede. Esitando raggiunge il Suo trono. Gli angeli faticosamente si concedono l’un l’altro il permesso di cantare, alleluia“.

 

Sono le sei del mattino e non so perché mi sono svegliato prima del solito. Guardo l’iphone, guardo whatsapp, ogni mattina guardo se nel corso della notte qualche angelo ha mandato un messaggio. Ma ho dimenticato di pregare gli angeli da tempo e anche loro hanno smesso di farlo. C’è una foto di Leonard Cohen con la data di nascita e di morte. L’ha mandata una amica. Capisco perché sentivo quella ferita allargarsi. Mi metto a cercare in mezzo alla catasta dei miei libri, ma non lo trovo. Non trovo quel libro. L’ho tenuto sul comodino per tanto tempo, ogni sera leggevo un salmo, una preghiera. E’ “Il libro della Misericordia”, ma non lo trovo. Forse l’ha portato via lui. La mia crepa si allarga all’infinito. Ho bisogno di Misericordia, oggi più che mai. Ho bisogno delle sorelle della Misericordia ovunque esse siano, fosse anche al vecchio Chelsea Hotel. O in Boogie Street.





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