Un papà che si divertiva a guardare i figli giocare. Si potrebbe riassumere così la vita di George Martin e l’incontro che cambiò la sua vita, ed anche quella dei quattro di Liverpool che gli capitò di conoscere. Era il 6 giugno 1962. Martin (all’epoca 36 anni, già da un po’ nell’industria discografica – bellissimo il racconto che ne fa nella sua autobiografia All you need is ears) lavora per la Parlophone, un’etichetta minore della EMI (qualche anno dopo produrrà i primi Coldplay capitanati da un altro Martin…) che fino ad allora, come indica il nome, si era occupata principalmente di commedie radiofoniche e della loro sonorizzazione musicale.
Ma era esploso il rock’n’roll, così Martin voleva portarlo nella sua etichetta. Incontra per un provino una band di ragazzotti che erano appena stati rifiutati dalla Decca. “Questa musica non è un fenomeno su cui investire, durerà solo pochi anni”, aveva detto il lungimirante producer dell’etichetta concorrente. George Martin non la pensa così, e capisce che i quattro ragazzi hanno un carisma difficile da trovare. Mette subito i Beatles sotto contratto, e il resto è storia.
Nonostante fino a quel momento si fosse occupato quasi esclusivamente di musica classica, da teatro e jazz, Martin intuì un potenziale che all’epoca era davvero molto grezzo e confuso. E proprio come un padre, lavorò perché le personalità dei quattro venissero fuori al meglio. Spesso dicendo la sua. È grazie a lui che un blues che partiva scialbo come Can’t Buy Me Love si trasforma in un urlo primordiale, anteponendo il ritornello urlato alla strofa. È grazie a lui che una fanfara pescata dai dischi di commedie della Parlophone viene inserita in Yellow Submarine, colorando quel frammento in maniera unica.
È lui che orchestra le idee impossibili di John Lennon che un giorno gli chiede un suono “da fine del mondo” per A Day In The Life e lui, non potendo ordinare a 40 orchestrali “fate un suono da fine del mondo”, scrive le parti per tutta l’orchestra dalla nota più bassa alla più alta che ogni strumento possa eseguire, in un glissato in crescendo degno di Varèse o Stockhausen. O che alla richiesta sempre di Lennon di voler sentire l’odore di segatura delle feste di paese, allestisce l’arrangiamento straordinario e circense di Being For The Benefit Of Mr. Kite! E scrive gli archi di Yesterday, l’assurdo clavicembalo sporcato dalle blue-notes della divertentissima Piggies, aiuta McCartney a tagliare e incollare nastri per i loop di Tomorrow Never Knows, e sempre nello stesso pezzo, filtrare la voce di Lennon attraverso il leslie di un organo Hammond… (e Lennon ne rimase scontento, perché avrebbe voluto dei monaci tibetani veri, come un figlio la mattina di Natale davanti ad una bellissima pista per e macchinine, perché lui invece voleva lo skateboard…).
Con gli esempi si potrebbe andare avanti ore, se non giorni. Riassumendo si può dire che con pazienza infinita – ed anche una certa sagacia, sapendo di avere per le mani delle galline dalle uova d’oro – Martin seppe far venir fuori – riconoscere, talvolta correggere, anche duramente – un talento che sicuramente era unico, ma che senza un grande maestro avrebbe prodotto frutti senza alcun dubbio inferiori. O diversi.
Ma non si possono giudicare gli scenari possibili, solo quello che abbiamo: una band che – pro e contro, eccessi e follie, guadagni stellari e canzoncine di poco conto, tutte cose scritte e dette – ha cambiato il corso della storia, partendo effettivamente da semplici canzoncine d’amore (“Mr. Martin, ma vuole veramente che registriamo quella pappetta?” – McCartney alla prima seduta di registrazione) ed arrivando ad una mescolanza di generi impossibile solo a pensarsi, figuriamoci realizzarla, in anni in cui il termine ‘contaminazione’ indicava perlopiù quella radioattiva. L’innovazione (e in tantissimi campi) faceva i conti con la tradizione, custodita e proposta a loro da un grande maestro. Questo il grande valore di George Martin.