Vabbè, vedi questa masnada di ragazzini salire sul palco e pensi: ma che è, si è portato dietro i vincitori di American Idol o di X Factor? Quando però partono a suonare resti a bocca aperta e, tanto per dirne una, un amico fa: perché in Italia non esistono bassisti come questo? I Promise of the Real sono un gruppo pazzesco, da qualunque parte li giri. I due fratelli Nelson, Lukas e Micah, sono due chitarristi straordinari, il bassista Corey McCormick uno stantuffo instancabile dal cuore hard rock, il batterista Anthony Logerfo essenziale e scatenato quando ci vuole. Per la cronaca, a parte Danny Whitten e ovviamente Stephen Stills, è la prima volta nella sua carriera che Young si porta dietro un chitarrista solista, Lukas, intrecciando così duelli di chitarra che abbiamo sognato solo sui solchi di Four Way Street.
L’iniezione di energia che ha portato questa band ha giovato moltissimo al 71enne canadese, un po’ come successo a Paul McCartney quando cominciò ad accompagnarsi a musicisti della metà dei suoi anni e anche meno. E dovrebbe servire da esempio ad altri colleghi coetanei o giù di lì.
Il concerto assomiglia per certi versi a quello che il canadese portò agli Arcimboldi nel 2008 (che per il sottoscritto rimane il suo migliore in Italia di sempre, anche perché aveva con sé gente come lo scomparso Ben Keith che aveva suonato con lui tutta la vita, ricreando perfettamente le atmosfere di un disco come Times Fades Away e nella parte acustica tirando fuori gemme come Ambulance Blues o Journey Through the Past). Anche il repertorio di Milano è in stragrande parte anni 70 – ha fatto quasi tutto Harvest e tirato fuori due brani raramente fatti dal vivo, come le acidissime, cattive e sanguinolenti Vampire Blues e Revolution Blues da On the Beach). E’ stato un po’ come mettersi lì e sfogliare quel grandissimo triplo album che fu Decade, la prima raccolta antologica multi lp con un sacco di inediti, su cui noi tutti ex ragazzi degli anni 70 ci siamo formati, ci siamo commossi e ci siamo innamorati.
La scaletta più o meno ha seguito un tema concettuale unico, sin dall’iniziale After the Goldrush, “look at Mother Nature on the run in 2016” aggiornando il verso originale “in the nineteen seventies”, confermata dalla toccante Mother Earth. L’ambiente, la salvezza del pianeta “Earth”, Terra, declinato in modo gentile e sommesso, senza proclami e prosopopea. Due contadini che innaffiano piante sul palco, un disinfestatore in tuta, ciliegie psichedeliche lanciate al pubblico. E quel tema che scorre discreto nelle sue canzoni da sempre: rispettiamo e amiamo la natura, ma non solo, anche i valori che hanno fondato il mondo libero: “Are there anymore country families still working hand in hand, triying to stand together and mak a stand?” si chiede in Are There Any More Real Cowboys? cantata in duetto con la leggenda vivente Willie Nelson, 83 anni, lunghe treccine da capo indiano, padre di Lukas e Micah. Quel mondo libero reclamato con urgenza e orgoglio in una versione lunghissima, piena di stop and go, tiratissima, esplosiva, osannante, declamante, mirabolante di Rockin’ in the Free World che ha eseguito più tardi.
L’inizio è in splendida solitudine, vagando per il palco a evocare i fantasmi: Heart of Gold, The Needle and the Damage Done oltre ai due pezzi già citati. Poi arrivano i ragazzi, capacissimi di ambientarsi nel classico country californiano del nostro: tuffo al cuore per la raramente eseguita Out on the Weekend, con quel un-due-tre della batteria che è stata la colonna sonora di un’epoca, cantata con il cuore dai tanti presenti. Comes a Timedimostra la voglia di Young di inventare nuovi, delicati arrangiamenti, mentre Old Man ovviamente fa esplodere i presenti. Un po’ di fischi partono quando Lukas Nelson si siede al pianoforte per Volare di Domenico Modugno, omaggio a “this beautiful countryside of Italy” come dice Young. Stucchevole, ma vabbè.
Quando sale sul palco Willie Nelson invece è una botta di quelle forti forti: mai venuto prima in Italia e mai più ci verrà probabilmente, l’ultimo superstite degli outlaws texani, 83 anni portati magnificamente, sfonda il palco e tutta la città di Milano (sotto una splendida luna piena che lo stesso Neil Young indica col dito) tanto è il carisma che si porta dietro anche prima di cominciare a cantare. Duetta in Are There Any More Real Cowboysed è come se fossimo al Farm Aid, l’evento a sostegno dei contadini americani che lui e Young portano avanti da trent’anni. Poi esegue la sua classicissima On the Road Again, e siamo su quelle strade blu e polverose tra pullman Greyhound, auto scassate, rodeo bar, angeli e demoni. Un momento indimenticabile.
Con la bellissima Winterlong, altra chicca rara, parte una sequenza da brivido che continua con Alabama e Words, quest’ultima prima cavalcata elettrica sfidando Lukas e Micah che dimostrano di sapersi adattare benissimo a qualsivoglia cambio di atmosfera. Young non ha il passo violento e al calore bianco che è caratteristica di quando suona con i Crazy Horse, il suono della sua chitarra è totalmente 70s: slow, fatto di odore di marijuana, psichedelico, ma non mancano le bordate a base di feedback improvvisi. C’è una maestosità vintage in questo incedere così sognante e trascendente di cui il canadese è rimasto l’unico erede. Lui lo sa e a volte si avvicina alla telecamera che manda le immagini sugli schermi laterali e indugia con un sorriso ironico e sbeffeggiante, si atteggia manovrando la leva della sua Old Black, mentre sugli schermi le immagini si moltiplicano in primissimo piano come succedeva nello splendido film di Jomnahan Demme, Journeys. Tra una Powderfinger poderosa e cantata a squarciagola e una Mansion on the Hill acida, ci sono due momenti che nessuno dei presenti dimenticherà mai. Il primo è Cowgirl in the Sand, cavalcata infinita di note cupe, distorte, irrefrenabili con esplosioni deflagranti e tanto, tanto ricordo di una California che ha chiuso i battenti secoli fa. La seconda è una lunghissima Love to Burn, e qui lo show lo rubano i due fratelli Nelson.
Diversi cambi di tempo, dettati dal basso industrial noise, lasciano i due a contendersi il palco a colpi di psichedelica purissima. Che famiglia, la famiglia Nelson. Se Vampire Blues è ancora un inno in difesa dell’ambiente (“Sono un vampiro, succhio il sangue dalla terra”), Revolution Blues evoca Charles Manson, la violenza brutale dei giorni antichi e dei giorni nostri, la fine dell’utopia hippie (ma davvero? pensando a Neil Young sembra che sia più viva che mai), autentico atto di cronaca e di testimonianza, a colpi di chitarre imbufalite. Piacciono anche After the Garden, traccia iniziale del disco contro la guerra in Iraq Living with War, e la nuova Seed Justice.
Rockin’ in the Free World è di una potenza incontenibile con il ritornello ripetuto all’infinito, esplode tutta la voglia di vivere in pace in questi giorni di guerra bestiale, nessuno sta fermo, nessuno tace. Sì, vogliamo continuare a vivere di rock in un mondo libero.
Willie Nelson torna sul palco per la conclusiva Homegrown, altro brano ambientalista risalente a metà anni 70 e qui, neanche nei nostri sogni più selvaggi, ci saremmo mai aspettati di vedere in un concerto italiano l’anziano texano e il canadese scambiare un duello chitarristico elettrico, con Young che se la ride di gusto. Meraviglia.
Alla fine si mettono tutti in cerchio intorno a Willie Nelson, facendo un girotondo che sembra una danza di nativi americani, gioiosa, infantile e liberatoria e allo stesso tempo di tributo all’anziano cantante e alla musica stessa che ha guidato loro e noi fino a qui.
Serata memorabile. I giganti sono ancora in giro per questo pianeta, nulla passa invano.