Se c’è qualcuno che merita di vincere questo festival di Sanremo 2017, è uno solo: Sergio Sylvestre. Non solo perché come cantante, come voce, è una spanna o due sopra tutti gli altri, ma anche per la simpatia del personaggio. Insoma, un ragazzone di colore, dalla pelle nera, che sceglie come cover da cantare nella serata delle cover, un brano che si intitola Vorrei la pelle nera, ha già vinto almeno a livello simpatia. Gli pseudo impegnati, gli intellettuali sempre civilmente impegnati, che sono andati a spulciare nel dizionario della canzone italiana pezzi “con il messaggio” poco hanno potuto davanti al gigante nero: lui ha riso di se stesso e sdrammatizzato problematiche importanti come la diversità, l’integrazione, il razzismo. Idolo, come dicono i giovani di oggi.
La serata si è aperta con le quattro Nuove proposte rimaste in gara, primo semifinalista Maldestro, vincitore nel pomeriggio del prestigioso Premio Enzo Jannacci con il brano Canzone per Federica. Brano melodicamente di poco conto, risaputo e neanche emozionante nell’interpretazione. Tommaso Pini, travestito da Capossela de’ noiatri, vocina in falsetto fastidiosissima, ci si domanda come sia stato scelto per un festival come quello di Sanremo, se non per fare il fenomeno da baraccone. A seguire la terza proposta Insieme canta Valeria Farinacci. Interpretazione di poco conto, voce piena come comanda la moda alla Emma Marrone, dal punto di vista melodico non decolla mai.
Brano insignificante, nell’interpretazione e nella composizione. Arriva Lele con Ora Mai: anche qui nulla di originale, siamo dalle parti del primo Mengoni. Se queste sono le nuove proposte della canzone italiana, i responsabili artistici del festival non hanno alcuna connessione con la realtà giovanile di oggi, pensano solo a ricalcare le formule di un tempo, ma quei festival avevano bel altro livello artistico. Chi passa dei quattro alla finale? Nessuno di loro lo merita, ma comunque domani sera vedremo Maldestro e Lele sfidare gli altri due già candidati.
Primo ospite della serata il Piccolo coro dell’Antoniano, sì quello dello Zecchino d’oro. Ecco: se a noi over 50enni qualche emozione lo suscita, ci si domanda tra i giovani chi sappia cosa sia. Lapsus freudiano dei responsabili artistici del festival: come dire, lo guardano solo i vecchi.
E comincia la sfida delle cover, prima sul palco Chiara con Diamante, incisa da Zucchero con parole di Francesco De Gregori. Sul palco con lei l’ex Pfm Mauro Pagani al bouzouki e al violino, fino a poco tempo fa tra i direttori artistici di Sanremo, paura conflitto di interessi sfiorata di poco. Una bella canzone ma Chiara manca di pathos, zero emozioni, incapacità di tasmettere alcuna vibrazione. Non si può cantare “spo-pausa-se”, ci vuole una estensione che lei non ha per unire il cantato. Tocca a Ermal Meta che si azzarda a toccare il repertorio dell’immenso Domenico Modugno, con Amara terra mia, brano che racconta la tristezza degli emigranti. Il confronto ovviamente è impossibile, ma Ermal offre una esecuzione dignitosa, con un falsetto di non facile esecuzione. Sorvoliamo sulla patetica versione di Le mille bolle blu che Mina portò fra le polemiche al festival del 1961, resa in una marcetta dance da Lodovica Comello. Al Bano riprende uno dei grandi classici di sempre, Stand by me di Ben E. King che Celentano rifece in italiano con il titolo di Pregherò. Un brano maestoso ma il povero Al Bano non ce la fa più: la voce è andata per sempre.
Fiorella Mannoia non poteva che proporre un brano dell’amico Francesco De Gregori accompagnata al pianoforte dal maestro Danilo Rea: Sempre per sempre è eseguita con la sua consueta elegante classe. Sempre con intensità e impegno civile, la regina del politically correct.
Alessio Bernabei ci fa ascoltare Un giorno credi, bellissima canzone dal disco di esordio di Edoardo Bennato. Intensità? Passione? Zero. Sbiadito, anonimo, incolore. Che rimane degli anni 70? Nulla. Scuola Maria De Filippi: urletti strozzati per nascondere la mancanza di voce.
Spettacolare invece Paola Turci con il classico di Anna Oxa, Un’emozione da poco: quando si dice avere una voce che spacca e una presenza scenica che si impone.
Super ospite di questa terza serata è Mika, che ormai è più italiano del sottoscritto, qua ha trovato casa e vero successo. Simpatico, sbarazzino, anche brillante, dà saggio di stile Broadway con tanto di ironia pro Lgbt. Ottima esibizione che come sempre in questi casi fa sfigurare noi italiani. Mika omaggia anche George Michael con quella che probabilmente è la sua canzone più bella, la struggente Jesus to a child. Applausi.
Per Gigi D’Alessio una sfida non da poco: ha scelto uno dei capolavori della musica italiana di sempre, L’immensità di Don Backy, presenta al festival del 1967. Ma la voce non è quella, proprio non ce la fa a raggiungere le vette che un tale brano richiede. E’ così super Gigi dimostra la sua mediocrità di cantante. Francesco Gabbani rispolvera un brano che neanche Celentano, che la incise nl 1984 ricorda più: Susanna, tormentone del gruppo olandese The art company. Un pezzo niente di che e che il volentoroso Gabbani rende anora più mediocre. Molto sentita l’esibizione di Marco Masini con Signor tenente, che lo scomparso Faletti eseguì al festival del 1994. Presentato da Alessandro Gassman, che sottolinea l’importanza del messaggio sociale del pezzo ancora oggi attuale, è ovviamente un tributo allo stesso Faletti. Curiosa la scelta di Michele Zarillo, un pezzo di Miguel Bosè del 1993, Se tu non torni, brano che non ha certo fato la storia della musica.
Samuel, si cimenta in una cover di una cover: Ho difeso il mio amore resa celebre in Italia dai Nomadi è un pezzo del gruppo inglese Moody Blues del 1967, Night in white satin. Impossibile reggere il confronto con la voce di Augusto Daolio, Samuel ci aggiunge anche un fastidioso accento dialettale che rende il tutto da sagra della melanzana. Ed eccolo Sylvestre, accompagnato dai Soul System con il famoso brano cantato da Nino Ferrer: versione funk, con inserti rappati, finalmente un po’ di vita sul palco di Sanremo, voglia di muoversi e ballare. Un bell’impatto quattro neri sul palco, anche se oggettivamente il buon Sylvestre fatica a raggiungere i toni scatenati del grande Nino Ferrer.
Tocca a Fabrizio Moro e anche per lui è De Gregori, La leva calcistica della classe 68. Esecuzione onesta e dignitosa ma che non lascia il segno. Ultimo sul palco Michele Bravi con La stagione dell’amore di Franco Battiato. Troppo giovane, troppo immaturo vocalmente, massacra quella gran canzone in maniera vergognosa. Non ci siamo: ripassa da queste parti fra dieci anni Michele.
Il commento finale? Cimentandosi con le grandi canzoni rese celebri da interpreti straordinari, i cantanti di questo festival dimostrano tutta la loro pochezza. Se le loro mediocri canzoni presentate in gara nascondono in parte lo scarso livello, le cover lo mettono disastrosamente in luce. Con un paio di eccezioni, quali sono se ci avete letti fino a qui lo avete capito, anche questo festival si dimostra come ormai da decenni la morte della canzone italiana. Qualcosa di buono là fuori c’è, ma non passa da Sanremo.