ANI DI FRANCO/ Il concerto al Carroponte: la riot grrrl è ancora con noi
Ani Di Franco si è esibita per una sola data italiana al Carroponte di Milano, per presentare il suo ultimo, ottimo disco, Binary, e per rivistare la sua carriera. PAOLO VITES

C’è stato un periodo, verso l’inizio degli anni 90, in cui la musica d’autore sembrò per un attimo riportarci allo splendore degli anni 60 e 70, dopo un lungo periodo di astinenza. La stragrande maggioranza di questi dischi erano composti da donne e forte era anche la componente politica, una riaffermazione del loro ruolo sempre oscurato nel campo della musica. Fu un periodo di “rinascimento”, con autrici sofisticate come Aimee Mann, Lisa Loeb o Sheryl Crow, folksinger pure come Jewel e Shawn Colvin, tormentate e disagiate come Fiona Apple, estreme e sofferenti come Julianne Hatfield o Tori Amos, punk e politicamente incazzate come le Bikini Kill e le Sleater-Kinney, le cosiddette “riot grrrl”.
Ma prima di tutte e più importante di tutte fu Ani Di Franco, che già a 9 anni si esibiva nei bar di Boston cantando canzoni dei Beatles. Quando scopre di saper scrivere canzoni, manco ventenne, non fa la solita trafila a elemosinare attenzione dalle case discografiche, ma con l’autentica filosofia punk del “Do It Yourself”, si fonda la sua casa discografica, si incide i dischi e se li distribuisce. Diventerà esempio di imprenditoria indipendente di successo, vendendo in pochi anni circa un milione e mezzo di dischi. Piccolina, testa rasata o pettinature rasta, non canta delle sue arrabbiature, ma di quello che fa arrabbiare le ragazze. Pubblica un disco all’anno, a volte anche due, ha uno stile chitarristico unico e travolgente, un fingerpicking di pura matrice punk, non si considera una folksinger, ma di fatto è una folksinger dei tempi moderni. Diventa un simbolo, quello del femminismo applicato alla musica d’autore.
Ha una capacità di creare empatia, comunione di spiriti, gioia di vivere senza dimenticare la sofferenza e la voglia di sperimentare musicalmente che non si esaurisce mai.
Due sere fa si è esibita al Carroponte di Milano, dopo qualche anno di assenza dal nostro paese. La prima cosa che è salita sul palco è stato il suo bellissimo sorriso, sempre uguale, sempre pieno di gratitudine e bellezza, sorriso che non la abbandonerà mai per tutta la serata. Accompagnata da un ottimo batterista dai tocchi raffinati e jazz, ma anche rock quando c’è bisogno, e dallo straordinario Todd Sickafoose al basso acustico, ha cominciato subito con uno dei suoi brani manifesto, Shy, del 1995, con il caratteristico stile sincopato e incalzante della sua chitarra, per regalare già al secondo pezzo la bellissima Little Plastic Castle dall’omonimo disco del 1998, quello da cui pescherà di più nel corso della serata, serata che è una sorta di retrospettiva della sua lunga carriera. Canzone splendida, intensa e romantica, dispiega uno dei tanti aspetti musicali della cantautrice. E per chi ama il suo lato più intenso, melodico e da folksinger ha fatto anche la toccante e straordinariamente bella You Had Time, di una delicatezza unica, una perla dei suoi inizi, risalente al 1994.
Ma nonostante oggi sia una donna matura, anche mamma, non ha perso lo smalto punk degli inizi, arricchito da incursioni funk: quello stile chitarristico, che ha incantato tanta gente, fatto da uno staccato e da un fingerpicking velocissimo e da accordature diverse (il suo accordatore infatti è quello che si sbatte di più, passa l’intera serata a sistemare le innumerevoli chitarre di Ani senza sosta) è sempre presente. Lo stesso stile ritmico pieno di variazioni, che sfiora il rap, è nel modo di cantare.
In questo senso l’apoteosi della serata è stata una lunghissima ed esaltante Swan Dive ancora da Little Plastic Castle, con un lungo assolo di basso acustico e dei crescendo mozzafiato. Da quel disco ha ripreso anche Independence Day, festa nazionale americana celebrata il giorno prima del concerto, che, ha detto, per lei adesso è “la festa nazionale del lamento funebre (ogni riferimento a Trump è ovvio).
Una lunga festa, arricchita nel finale dalla presenza sul palco della cantante supporter, Chastity Brown lei splendida nera alla voce, con il suo raffinato chitarrista che in Binary esplode in un lungo e furioso assolo di chitarra. In questo senso, il bellissimo pezzo che intitola l’ultimo disco di Ani, un brano jazz-funk alla Prince, rappato, diventa dal vivo una splendida melodia folk aperta da un canto a cappella corale e poi un lungo rock’n’roll incalzante. Prima di cominciare il pezzo, la cantante chiama sul palco la sua addetta al merchandising da vent’anni, evidentemente di origini italiane, che legge nella nostra lingua il testo della canzone, un lungo sermone che attacca una società in mano a speculatori, macchine robotiche, realtà virtuale, sfruttatori per dirci di aprire la nostra coscienza al prossimo, alla natura (“Più invecchio” spiega la folksinger americana “e più mi rendo conto che non esistiamo se non in relazione con qualcun altro e con il tutto. L’individualismo non è che un costrutto del nostro ego” aveva detto in una intervista a Claudio Todesco per il sito Rockol), chiedendosi: “Dove sono i miei fratelli? Dove sono le mie sorelle? Dov’è la mia famiglia quando crollo a terra?”.
Il finale è per Joyful Girl, altro manifesto esplosivo di una ex ragazzina che ha vinto la sua battaglia grazie a un sorriso illuminante, che se lo porta via con sé scendendo dal palco, ma lasciandocene un po’ anche a noi. Da giovane diceva di essere “not a pretty girl”. Adesso è una “pretty woman”.
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