C’è sempre stato un po’ di Yusuf in Cat Stevens e viceversa. Adesso che, forse per ragioni di marketing indotto dal terrorismo, sulla copertina del nuovo disco che celebra i suoi 50 anni di carriera, appare ben in vista il nome “Cat Stevens” e un po’ più in piccolo quello di “Yusuf” senza il cognome “Islam”, il secondo è tornato in primo piano.
C’è più Cat Stevens da diversi anni, da quando cioè nel 2006 dopo un silenzio discografico durato oltre trent’anni usciva “An Other Cup”, e meno Yusuf Islam. La persona è la stessa, ma è anche il riflesso di una doppia identità. Impossibile infatti dimenticare quel “Cat” che negli anni 70 vendeva dozzine di milioni di dischi, scriveva canzoni bellissime fatte proprie da una generazione, ma non sarebbe giusto dimenticare quel'”Islam” non solo cognome, ma segno di una conversione effettuata proprio alla fine di quel decennio. Cioè non in tempi sospetti, quando islam come oggi è associato con terrorismo.
“Ho parcheggiato Cat Stevens per un po’” ha detto in una recente intervista presentando il nuovo “The Laughing Apple”. Ma poi è prepotentemente tornato. Dopo decenni di islam fondamentalista in cui rilasciava dichiarazioni imbarazzanti, c’è voluto l’attentato alle Torri Gemelle per fargli prenderne le distanze: “A un certo momento mi sono trovato circondato da interpreti del pensiero islamico piuttosto conservatori, e sono state commesse molte ingiustizie, impossibili da ignorare. Quando si studiano le fonti della conoscenza bisogna fare molta attenzione… perché ha a che vedere con la carità. Se si smette di essere caritatevoli si perde qualcosa dello spirito della religione. Ma perché succede? Perché si è stati in qualche modo fuorviati. È facile per le persone, specialmente quando ricevono il soffio della fede, essere indotte in errore da qualcuno che fa la voce grossa” aveva detto nel corso di un’altra intervista un paio di anni fa.
Di dischi ne sono arrivati altri, e poi anche tour mondiali festeggiati da decine di migliaia di spettatori, anche in quegli Stati Uniti che per via del cognome e per certe dichiarazioni filo palestinesi per diversi anni gli avevano negato l’ingresso. E’ stato un enorme, collettivo abbraccio da parte del pubblico e di fan insospettabili che hanno voluto condividere il palco con lui in molte occasioni, dallo scomparso Chris Cornell a Eddie Vedder, a testimonianza di come anche le ultime generazioni avessero nel cuore la sua musica.
Il terrorismo islamico? “E’ la distorsione del vero senso religioso”. La pace? “E’ quello che ho sempre perseguito e sognato, anche se quella del mondo esterno è sfuggente, non hai mai il pieno controllo sulle cose. Penso maggiormente alla pace interiore”.
Tutto questo era già evidente nelle sue canzoni degli anni 70, motivi celebri come Wild World o Father and Son, che esprimevano in modo potentissimo l’inesorabile bisogno di senso religioso, di un significato, di un senso dell’esistenza raramente espresso in modo così forte nella musica rock. Quella domanda ha trovato una risposta in un modo o nell’altro.
E se 50 anni fa usciva il suo primo album, “Matthew and Son”, contenente i suoi primi grandi successi, canzoni come Heres come my Baby, adesso esce “The Laughing Apple” in cui l’artista reincide alcuni pezzi di quel periodo storico e ne aggiunge alcuni inediti. E torna a lavorare con il suo produttore storico, Paul Samwell-Smith, e il suo chitarrista anche lui storico, Alun Davies, per la prima volta da quando ha ripreso a fare dischi.
Il risultato è un disco delizioso e vintage, delicatamente acustico con accompagnamento orchestrale tenue dove sono eliminati gli arrangiamenti tronfi e pop di quei tempi. Spiccano in particolare due brani: la bellissima Blackness of the Night, contenuta originariamente nel suo secondo album, “New Masters” anche questo del 1967, e Mighty Peace. La prima è una ballata dalla forte carica emotiva il cui testo se allora esprimeva l’inquietudine di un ragazzo ventenne che sentiva di essere un outsider, oggi esprime la drammaticità di tutti coloro che banalmente chiamiamo migranti. “In the blackness of the night I seem to wander endlessly With a hope burning out deep inside I’m a fugitive, community has driven me out”. Un fuggitivo, cacciato dalla sua comunità.
L’altra è Mighty Peace, la sua prima composizione di sempre, scritta quando aveva 15 anni, un pezzo tipico di quell’epoca storica, tra marce per la pace e proteste contro la guerra. Esattamente come oggi. Yusuf recupera poi un inedito di pochi anni posteriore, You can Do (Whatever) scritta per la colonna sonora del film Harold and Maude ma allora rimasta fuori. Viene recuperata anche l’antica filastrocca ottocentesca Mary and the Little Lamb, per sottolineare il clima fiabesco che ha sempre contraddistinto l’artista, mentre gli altri due brani sono See what love did to me, il cui testo è basato su una poesia del poeta turco del XIII secolo Yunus Emre, classica come un classico di Cat Stevens, nel suo piacevole andamento country, e Don’t Blame Them, che riprende un classico giro musicale di Beethoven, trasformandola in ballata folk, con un bel cambiamento di tempo anche questo tipicamente country.
Si capisce da questi tre brani che musicalmente Yusuf non ha più molto da proporre in termini di composizioni nuove, ma il disco resta una preziosa testimonianza di un percorso unico, quello che lo ha portato dalle soffitte di Soho a Dubai e poi indietro. Adesso Yusuf e Cat hanno imparato a convivere insieme.