LETTURE/ Politiche culturali e interventi dello Stato

- Giuseppe Pennisi

Un libro che tutti coloro che si occupano di politiche culturali, od anche solamente se ne interessano, dovrebbero leggere e discutere. GIUSEPPE PENNISI

LIBRO-CAVAZZONI La copertina del libro

Filippo Cavazzoni dell’Istituto Bruno Leoni (IBL) ha coordinato la preparazione di un volume stimolante e dal titolo a doppio senso (a cura di Filippo Cavazzoni, con prefazione di Giulio Vitiello ‘Il PUBBLICO ha sempre ragione? Presente e Futuro delle Politiche Culturali’ IBL Libri, Milano pp. 240, €18) che tutti coloro che si occupano di politiche culturali, od anche solamente se ne interessano, dovrebbero leggere e discutere. Il titolo è volutamente ambiguo. Da un lato, può voler ripetere la domanda retorica che il pubblico pagante, con il suo applauso (ed i suoi fischi, nonché i suoi voti), è il miglior giudice dei risultati non solo di uno spettacolo o di un evento culturale ma anche di una politica culturale e dell’insieme delle politiche culturali. Da un altro, si chiede se la mano pubblica (ossia l’intervento dello Stato) in materia di politiche culturali è il metodo per affrontare al meglio i vari nodi del vasto settore.

Il volume è diviso in tre parti (Politiche trasversali per la cultura, Politiche per il patrimonio culturale e paesaggistico, Politiche per l’industria culturale) ed in sedici agili saggi. Si può leggerlo tutto di un fiato oppure scegliendo i temi od i settori di cui si ha maggior contezza e di cui si è maggiormente interessati. Copre tutti i tasselli in cui si articola la politica culturale di un Paese: dalla scuola all’urbanistica dalle forme di finanziamento al mercato dell’arte, dalla televisione all’editoria, dal teatro alla musica colta, dal cinema ai musei.  

Ciascuno dei saggi è affidato ad uno specialista ‘di chiara fama’ ossia molto noto nel campo specifico che affronta. Li accumuna una filosofia liberale, o meglio liberalsocialista nei termini di un dibattito di quaranta anni fa di cui in queste settimane alcuni convegni e lo stesso Corriere della Sera hanno voluto ricordare la ricorrenza. L’impostazione di fondo infatti, non è contro l’intervento pubblico nel settore della cultura o per la soppressione di quel Ministero dei Beni ed Attività Culturali creato da un liberale come Giovanni Spadolini. Mette, invece, in discussione l’interpretazione statocentrica che ha tale intervento si è data in Italia.

Ho letto il volume con quattro differenti lenti. Da un lato, ho vissuto per oltre tre lustri negli Stati Uniti dove le politiche culturali sono altamente decentrate – il principale strumento di intervento centralizzato è il National Endowment for Arts che ha dotazioni relativamente modeste. Ho una moglie francese: in Francia le politiche culturali sono tanto statocentriche quanto da noi, ma l’approccio fa meno danni in quanto affidato ad un burocrazia più efficiente di quella italiana. Per cinque anni ho presieduto la Commissione Economia della Cultura del dicastero e fatto parte del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Ho, infine, insegnato corsi di economia delle cultura. In breve, sono parte in causa, ma non ho conflitti di interesse.

I saggi sono eloquenti nel documentare i tanti vizi e le poche virtù di politiche culturali statocentriche che hanno, in gran misura, origine nella storia della nostra unità nazionale (esempio principale è l’istruzione la cui statizzazione risale all’unificazione del Paese ed ai lunghi postumi della ‘Questione Romana’). Tra i tanti saggi particolarmente eloquente quello sull’eutanasia del cinema italiano ed i suoi nessi con il sistema di finanziamento pubblico. Il contributo è fin troppo gentile nei confronti del meccanismo gestito a Via Santa Croce in Gerusalemme, Roma: non traccia un parallelo con l’analoga involuzione avuta dalla cinematografia francese e non ricorda che nel rapporto sulla spending review di Carlo Cottarelli e Roberto Perotti si sottolinea come la cinematografia italiana abbia i contributi pubblici più alti al mondo. In effetti, nel cinema e non solo, si contravviene apertamente a quella che dovrebbe essere la cura del morbo di Baumol dal nome dell’economista americano che in un volume scritto in gran parte in un appartamento a Trastevere durante un congedo sabbatico a Roma (Baumol, William J.; Bowen, William G. (1966). Performing Arts, The Economic Dilemma: a study of problems common to theater, opera, music, and dance. Cambridge, Mass.: M.I.T. Press) propose l’intervento pubblico per quei comparti che si sarebbe ammalati e, poi, scomparsi a ragione del progresso tecnologico che li avrebbe reso sempre meno competitivi.

Si potrebbe continuare a lungo. Col rischio, però , di non invogliare i lettori a acquistare il libro ad assaporare le problematiche di ogni singolo tema e comparto e le soluzioni specifiche proposte, segnatamente quelle a costo zero. 





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