L’unico bis è una dichiarazione molto junghiana, ma anche di grande fascino: “Prima di innamorarvi di una persona, prima di voler bene agli altri, imparate a voler bene a voi stessi”. Sono anche le uniche parole che Cat Power rivolge al pubblico accorso in buon numero all’Alcatraz di Milano, a parte qualche “grazie mille” sussurrato con un fil di voce.
La frase è l’augurio accorato di una donna che ce l’ha fatta, che è sopravvissuta passando attraverso mille dolori. I segni si vedono ancora, nel modo attorcigliato su se stesso con cui si muove sul palco e soprattutto nelle mani, quelle mani. Che si agitano per conto proprio, che si congiungono e che si distanziano, che indicano qualcuno tra il pubblico e si elevano in silente preghiera. E che per buona metà del concerto chiedono al fonico del mixer di alzarle le spie con una elegante giravolta in aria e l’indice puntato in alto. O il fonico è cieco o la sua richiesta non ha senso, ma lei pare incupirsi, più volte va davanti a lui a parlottare a lungo, nel bel mezzo di una canzone, poi riprende a cantare rimanendo dietro la grossa casa sul palco, insomma è come se Cat Power sia in una dimensione tutta sua, incurante del pubblico.
E la voce. Non una gran voce, fa fatica a raggiungere le note più alte, ma usata benissimo, con pathos e sentimento, eleganza e raffinatezza, una via di mezzo tra Beth Orton e Sinead O’Connor, mentre il repertorio presentato ha un sound che è un incrocio tra Leonard Cohen e Nick Cave. Luci fioche, quasi sempre tendenti al blu scuro, lei vestita con un lungo abito nero, i lunghi capelli a nasconderle il bel viso, sembra una sorta di Grace Slick nascosta in un jazz club della Rive Gauche di Parigi.
Fascino, grande fascino. Paura, emotività, quello che le è rimasto di un ricovero in ospedale psichiatrico, debolezza anche, ma una forza nascosta che a volte sembra voler esplodere, più spesso trattiene.
Cat Power d’altro canto fa parte di quella generazione maledetta, i figli non voluti e rifiutati d’America: l’anno in cui usciva il suo primo disco era il 1994, l’anno in cui Kurt Cobain si uccise. Lei non è più la cantante dark folk di una volta, oggi è accompagnata da una batteria potente, precisa, inquietante; basso; tastiere e poca chitarra d’accompagnamento. L’impianto sonico è decisamente “brit” e molto moderno. E’ una chanteuse dal dolore soffuso, una Nico del terzo millennio.
Comincia con Cross Bones Style da “Moon Pix” del lontano 1998 e ci mette un po’ a vincere lo stage fright, la paura del palcoscenico, con brani che durano al massimo tre minuti e si chiudono di botto, quasi interrotti. E’ un suono folktronico. Poi si rilassa un po’, ed esplode nella meravigliosa, lunga, ipnotica e avvolgente Woman, il momento più bello della serata.
Diverse le cover, da Pa Pa Power del bizzarro duo Dead Man’s Bone, composto dal noto attore Ryan Gosling e dall’altro attore Zach Shields. Poi l’immancabile White Mustang della carissima amica Lana Del Rey; una irriconoscibile Into My Arms di Nick Cave; These Days di Jackson Browne, ma nella versione oscura incisa da Nico. C’è spazio anche per una bella Manhattan dal suo disco Sun del 2012, ma la maggior parte sono pezzi del suo ultimo disco Wanderer, come la bellissima title track.
L’indie rock di cui era una delle eroine è morto sepolto, sul palco il fantasma di mille donne e mille anime sofferenti. Un’ora e 20 secche, un’altra battaglia vinta per lei. E in ne siamo felici. Non è più come quella notte del 1999 alla Bowery Ballroom di New York quando all’improvviso scese in mezzo alla folla, si sdraiò a terra in posizione fetale e cominciò a dondolarsi, piangendo e tenendosi la testa fra le ginocchia, con i fan scioccati che le si stringevano attorno, accarezzandole il capo nel vano tentativo di consolare l’inconsolabile. Perché ciò che conta nella vita è amare se stessi e la ex ragazzina di Atlanta, che per dieci anni rifiutò di incontrare la madre alcolizzata, ha imparato a farlo. Adesso che è diventata mamma lei stessa.