C’è qualcosa nella musica che ti rende dipendente da essa. Qualcosa che continua a richiamarti, anche quando pensi di averne ormai abbastanza e che ti abbia dato già tutto. E che tu abbia dato a lei tutto quello che potevi. Ma non è mai abbastanza in realtà e tu accetti questo giogo senza sapere perché, ma ricominci daccapo, ancora. È così che dopo 50 anni di carriera ti trovi a salire sul piccolo palcoscenico di un ex cinemino dell’oratorio e ricominci daccapo. E quando le corde di metallo delle chitarre scintillano e i tasti neri e bianchi del pianoforte martellano e il basso pulsa di nascosto ritrovi la tua voce e il pubblico ritrova se stesso in quella nota di comune di appartenenza.
Francesco De Gregori in quella sala da 240 posti del Teatro Garbatella ha dato 20 appuntamenti consecutivi al suo pubblico, in una ambientazione quasi casalinga, sicuramente simile alla piccola sala del Folkstudio a Trastevere dove aveva mosso i suoi primi passi insieme al fratello maggiore Luigi, per l’occasione ospite speciale di questa serata di sabato (ce ne saranno altri di ospiti a sorpresa nelle prossime serate) ritrova tutta la voglia di fare musica che tanti suoi colleghi coetanei hanno invece perso.
Di quella generazione magnifica per un motivo o per l’altro è rimasto praticamente l’unico a tenere orgogliosamente alta la bandiera di una canzone d’autore di cui si sono perse le tracce. Lo fa omaggiando a inizio serata il suo maestro, ma in fondo maestro di tutti, con due straordinarie versioni da lui tradotte nel suo ultimo disco “De Gregori canta Dylan” di Desolation Row e I Shall Be Released. Canta in modo incisivo, sferragliante la prima, con quell’incrociarsi di chitarre acustiche ed elettriche, in modo declamatorio e visionario la seconda, ben supporto da due voci femminili gospel. Lo fa andando a tirare fuori brani che sembravano ormai dimenticati come Condannato a morte e ti stupisci di quella voce sempre più vibrante, sempre più convincente, sempre più poetica nonostante le migliaia di concerti e di sigarette dietro le spalle.
Concerto che comincia in modo rassicurante con due classici in sequenza, Titanic e L’abbigliamento del fuochista, ben sostenuta la prima dalla pedal steel di Alex Valle, ridotte all’osso, in veste folkettara. Certo, l’intimità della piccola sala contribuisce a rendere tutto più vero, intenso, con gli sguardi dell’artista che incrociano quelli degli spettatori e con lui che spiega che siamo tutti invitati a casa sua. C’è voglia di divertirsi e non prendersi sul serio, ma le canzoni sono talmente belle che la serietà è dentro di loro, comunque si voglia stravolgere Cercando un altro Egitto in una cavalcata rock con tanto di assolo di chitarra sguaiato e un po’ cialtrone.
Voglia di divertirsi che si trasforma in magia e poesia altissima, come sempre succede con Santa Lucia, una delle più belle canzoni della musica italiana di sempre seguita in un unico omaggio all’amico scomparso Lucio Dalla con la sua 4 marzo 1943.
Dopo aver sgridato il pubblico che nonostante l’invito scritto all’ingresso di non usare i cellulari lo fa lo stesso, sul palco sale il fratello Luigi Grechi, in una simpatica rimpatriata che porta di schianto a giorni antichi. I due cominciano con Banana Republic, brano del songwriter americano Steve Goodman tradotto da Luigi e manifesto dell’omonimo tour che De Gregori condivise con Dalla esattamente 40 anni fa. Canzone d’autore italiana e americana si incrociano e abbeverano alla medesima fonte seguita da Il bandito e il campione con Luigi rimasto sul palco da solo a eseguire la sua Sangue e carbone. La serata, un po’ breve in realtà, arriva al finale con I matti, Generale e una Rimmel uptempo in chiave country.
Ci sarà il tempo per due bis con la conclusiva Buonanotte fiorellino in cui invita chi vuole a ballare il noto valzer. E una coppia di trentenni lo fa davvero, alzandosi nel corridoio a ballare teneramente abbracciati con De Gregori che li applaude contenti. In fondo siamo soltanto in un ex cinemino dell’oratorio tanti anni fa, quando il mondo era ancora tutto intero.