Dischi caldi per un autunno/inverno che si annuncia con un gradito ritardo, almeno nel Nord Italia. Se il meteo non è più una certezza, la musica invece continua a esserlo. Ecco allora tre bei dischi densi di emozioni, di battiti dell’anima, di invito alla riflessione come vorrebbe una stagione che porta a isolarsi in casa con un bicchiere di vino buono e un libro. O un disco, che certi dischi, lo sappiamo ormai, sono come sfogliare le pagine di un volume.
È il caso dei tre cd usciti negli scorsi gironi e che andiamo a presentare: “Reverie” di Joe Henry (Anti/Spingo), “Anar”, di Marketa Irglova (Anti/Singo) e “All We Are Saying” di Bill Frisell (Universal).
Cominciamo dall’ultimo, il più sperimentale e coraggioso, quello dell’eccelso chitarrista jazz Bill Frisell, da anni accompagnatore anche di molti grandi nomi del rock, ad esempio Elvis Costello e Suzanne Vega, e da anni impegnato in un proprio personalissimo viaggio che l’ha portato ad affrontare via via le pagine più profonde della musica nordamericana in ogni sua coniugazione possibile. Dal jazz, ambiente primario da cui Frisell proviene, alla musica country e al folk.
Adesso Frisell ha deciso di cimentarsi in un progetto del tutto particolare: interpretare le canzoni di John Lennon in chiave strumentale e ovviamente chitarristica, complice la proposta di un tributo al Beatles scomparso da presentarsi a Parigi.
Definito da alcuni critici come “il più innovativo e influente chitarrista jazz degli ultimi 25 anni”, a differenza di molti suoi colleghi di quell’ambiente solitamente un po’ classisti e snob, Frisell non teme d confessare di avere un’anima profondamente rock. Lui che i Beatles li ascoltava quando aveva 13 anni. Lo dice lo stesso chitarrista: “La musica di John Lennon è stata con me, la mia band, tutti quanti, il mondo intero potrei dire da sempre. Sono canzoni che sono parte di noi, nel nostro sangue. Non c’è stato bisogno di alcuno studio particolare per affrontare questo progetto, siamo stati preparati a questi brani dalla nostra vita stessa, le canzoni erano lì”.
Accompagnato da altri strumentisti straordinari (Greg Leisz alle chitarre, Jenny Scheinman al violino, Tony Scherr al basso e Kenny Wollensen alla batteria) ecco allora scorrere una colonna sonora fantasmagorica, piena di luci e colori, mai fine a se stessa, sempre invece votata al buon gusto, al divertimento, alla sfida, all’avventura.
Brani come Across the Universe, Revolution, Imagine, You’ve Got to Hide Your Love Away, Come Together, Woman, Mother, Give peace a Chance e altri. Quando la musica rock assume a suono universale, esattamente come la musica classica.
E al senso di musica universale come comunione di un sentimento del cuore identico per tutti, si pongono anche gli altri due dischi.
Il primo è a firma Marketa Irglova, nome conosciuto da tutti coloro che hanno amato uno dei più bei film di tutti i tempi, quell’”Once” che racconta la storia d’amore di un musicista di strada dublinese e di un’immigrata dell’Europa dell’est che fa la donna delle pulizie e che nella musica trovano il battito comune dei loro cuori.
Protagonista del film era proprio lei, Marketa, originaria di Praga, e l’irlandese Glen Hansard: insieme costituiscono gli Swell Season che firmarono le musiche di quel film e con le quali vinsero anche un’Oscar. Adesso Marketa compie il suo primo passo solista con il disco “Anar”, che in lingua persiana antica significa melograno (un frutto associato al’idea di fertilità e abbondanza e che la cantante associa al suo desiderio di creatività).
Un disco delicatissimo e intimo, pianistico, con l’accompagnamento del batterista e cantante persiano Aida Shahghasemi e altri musicisti della scena indipendente newyorchese, città nella quale la musicista vive da qualche tempo. Forse non del tutto originale – non mancano gli evidenti riferimenti a grandi signore della musica come Joni Mitchell o Kate Bush – è però talmente onesto da far sussultare in più di una occasione, ad esempio nella bella Crossroads.
Proveniente dal mondo della musica classica, Marketa, se non ha una voce particolarmente incisiva, ha un gusto e una conoscenza musicale che portano le sue canzoni a fondersi appunto con le atmosfere della grande musica classica, complici anche certi arrangiamenti orchestrali in diversi pezzi del disco. Album perfetto per l’autunno, un invito alla riflessione e alla serena accettazione della propria condizione umana.
Concludiamo con un nome dalla ormai decennale carriera, seppur rimasto cult per i più. Joe Henry, che da anni affianca a quella di autore anche una brillante carriera da produttore (tra i tanti, Solomon Burke, Elvis Costello, Allen Touissant) è uno dei cantautori americani più raffinati, inventivi, sperimentali e allo stesso tempo confidenziali che esistano. Uno, per intendersi, che si può permettere il lusso di ospitare in un suo disco uno dei giganti del jazz quale Ornette Coleman.
Il nuovo “Reverie” (che significa “fantasticherie”, un titolo splendido) è il ritorno a certe ambientazioni soniche più semplici e dirette, ma non per questo meno affascinanti. Joe Henry vive la sua musica infatti in una dimensione sonora decisamente pre rock’n’roll: le sue canzoni sono piccole sceneggiature per film inesistenti che potrebbero essere ambientati negli anni Quaranta, film noir dove l’assassino è sempre un amante dal cuore spezzato e la vittima un fantasma sfuggente nella penombra che potrebbe essere chiunque.
“Reverie” in questo senso è strutturato proprio come i capitoli di un libro: da Henry Fonda che medita sulle rovine della Bank of America all’evocazione dello spirito della straordinaria cantante di colore Odetta, a una piccola camera d’albergo sperduta ad Arles dove si evoca invece il suicidio del cantautore Vic Chesnutt, all’autunno che incombe, metereologicamente e spiritualmente, Tomorrow Is October.
Un disco di fascino purissimo, canzoni che abbondano del senso di nostalgia spirituale e di desiderio, dove la voce sferzante di Herny declama melodie cristalline. Come essere Clark Gable che guarda un’America che non esiste più. Un disco talmente di lusso da contenere anche una presentazione dello stesso autore, cosa che un tempo era normale trovare nei dischi e che oggi nessuno fa più.
Ma Joe Henry è uomo di altri tempi e nelle sue parole tutto il senso di desiderio e di pienezza che albergano nel suo come nel nostro cuore: “E’ una cosa bizzarra vivere con il senso di una fame inappagabile al tempo stesso della soddisfazione – paura e consolazione – che sbattono sulle tue ossa in modo uguale. Ma no, non c’è alcuna vita oltre al tremolìo, nessuno autentica consolazione per il desiderio, perché il desiderio non vuole essere consolato, solamente sostenuto e trattenuto in quel terribile e sacro stato di bisogno. Così me ne sto seduto sulla spiaggia e aspetto; fumo, rido e ricordo. È chiaro e fa caldo, ma non lo sarà per molto ancora. E tale senso di anticipazione è la sola cosa che ha mai avuto uno scopo nella completa luce del giorno”.