Di grandi gruppi inutili è piena la storia del rock. I gruppi rock diventano inutili quando durano troppo. Sono grandi, perché hanno avuto un passato importante, che ha segnato il loro tempo, sono inutili perché di fatto non hanno più nulla da dire, ma procedono per inerzia. Quando fare musica rock diventa come timbrare il cartellino (con il rispetto per chi il cartellino lo timbra), questa musica perde ogni ragione d’essere.
Non era così una volta, quando un gruppo rock se durava tre anni era un record. Ok, c’è l’eccezione: i Rolling Stones durano ormai da quasi cinquant’anni, ma, come si dice, sono l’eccezione che conferma la regola: sono il più grande gruppo inutile della storia del rock. Perché gli Stones, l’ultimo grande disco lo hanno fatto nel 1978 (per la cronaca, si intitolava “Some Girls”). Poi hanno fatto una carrellata di dischi inutili.
Dal vivo se la cavano, fanno ancora dei bei concertoni, se a voi piacciono il karaoke e gli effetti speciali stile Disneyland. I Beatles, invece, dal primo disco all’ultimo, durarono in tutto otto anni. È un buon tempo di durata, né troppo, né troppo poco. La gran parte delle rock band non è mai sopravvissuta neanche otto anni: troppo forti e distruttive le dinamiche interne, specie quando si arriva all’agognato successo, e droga e invide e donne e gelosie minano l’unità di quello che era sempre, alla nascita, un gruppo di amici che stava insieme per divertimento e passione per la musica.
Il capitolo, quasi sempre triste, delle reunion lo lasciamo volentieri a un’altra volta. Oggi invece i gruppi rock sembrano non sciogliersi più: gli U2 vanno avanti da ormai trent’anni. Mai – o quasi – un segno di disfacimento. Saranno proprio amici per la pelle. Stesso discorso anche in termini di durata per i R.E.M. Anche se il gruppo di Athens un membro lo ha perso per strada, e non per la solita morte prematura dovuta a droga e quant’altro (oggi difficilmente gli esponenti della musica rock fanno più quella fine, tutti igienisti e politically correct come sono), ma semplicemente perché il batterista Bill Berry, una decina di anni fa si è rotto le scatole e si è ritirato nella sua fattoria a coltivare i campi. Il che non è molto rock’n’roll, come scelta, ma sicuramente più dignitoso che continuare a produrre grandi dischi inutili. Che è quello che suona l’ultimo lavoro della sua ex band, i R.E.M. appunto, che l’8 marzo pubblicano il nuovissimo “Collapse into Now”.
A sentire loro, è il lavoro migliore dai tempi di “Out of Time” (1991). Il che la dice lunga, il che dice una grande verità. Dice cioè , se “Collapse into Now” è meglio di tutto quanto venuto dopo “Out of Time” – anche se il successivo “Automatic for the People” resta di gran lunga il loro disco migliore di sempre – tutto quanto è venuto dal 1991 è stato piuttosto inutile. Considerato anche che “Chronic Town”, il loro primo ellepì, era del 1982, e “Out of Time” del 1991, sono esattamente nove anni di tempo. Non otto come i Beatles, ma comunque sufficienti a chiudere l’avventura.
Che tutto ciò che è venuto dopo, con l’eccezione di qualche bella canzone buttata qua e là (ad esempio Leaving New York) è stato un gran spreco di energie, un gran esercizio di stile, di speculazioni pseudo innovative, di repentine marce indietro, insomma un bel po’ di dischi dimenticabili. Solo l’ultimo “Accelerate”, uscito nel 2008, un ritorno alla freschezza rock garage degli esordi, era sembrato uno sforzo piacevolmente positivo, ma a tre anni di distanza suona anch’esso uno sforzo trascurabile.
Se quel disco era una poderosa bordata di schitarrate elettriche, ritmi accelerati, sfrontatezza post punk comunque apprezzabili, “Collapse into Now” è parzialmente un ritorno alle atmosfere acustiche e agresti di “Out of Time”. Il sound vorrebbe essere quello, a parte qualche episodio più rock come l’iniziale Discoverer (che suona come la milionesima rilettura della loro – e ben più eccitante – It’s the End of the World As We Know It) e la divertente, dall’approccio sixties Mine Smells like Honey. Ma le ballatone notturne, sentimentali e appunto acustiche (ad esempio Uberlin) non hanno minimamente la profondità e l’impatto emotivo che appartenevano a canzoni come Losing my Religion o Everybody Hurts. Non basta infarcire il tutto di mandolini per recuperare certe magie soniche.
Qua c’è solo della buona professionalità, ma anche tanta noia. Certo, la classe non è acqua e i R.E.M. sanno ancora cosa vuol dire evocare una grande canzone, ma è solo apparenza, la sostanza è andata a perdersi da qualche parte. Così come la voce di Michael Stipe è sempre una delle più interessanti della storia recente del rock, anche se sembra affogare nella routine che intrappola tutto “Collapse into Now”.
Salva le sorti del disco la conclusiva, lunga e misteriosa Blue, dove fa la sua comparsa la sempre straordinaria Patti Smith a creare i suoi incantesimi vocali come solo lei sa fare. E ruba la parte da protagonista, tanto il suo carisma fa impallidire quello di Michael Stipe e soci. Un pezzo con diverse aperture strumentali, cambiamenti di tempo, che suona quasi come una esplorazione della psiche umana a tempo di rock. Peccato che sia solo la fine del disco. La morale di questa storia? Forse aveva ragione Neil Young: meglio bruciare che arrugginirsi a poco a poco…