Caso singolare quello della vocalist canadese Madeleine Peyroux, jazz-singer fattasi largo nel music business a colpi di declinazioni in codice “standard” di classici della canzone provenienti da svariate latitudini musicali, e approdata in corso d’opera verso lidi pregni di vivaci evoluzioni tipiche di un pop d’autore elegante e dalla fine elaborazione armonica.
Quando la musicalmente encomiabile Radio Capital aveva diffuso alcuni anni orsono le brillanti scansioni vocali di “Don’t Wait Too Long” (singolo tratto dal lavoro targato 2004 “Carless Love”), l’equazione fin troppo facile adottata dalla dee-jay di turno era quella di un’identificazione con una voce storica e intoccabile come quella di Billie Holiday, uno di quegli accostamenti che creano una grande aura di fascinazione e nel contempo un altrettanto spiccato senso di repulsione che riporta a quelle ripugnanti pratiche in voga in quest’ultimo decennio per la ricostruzione in laboratorio di veri e propri cloni palestrati dell’ugola (si pensi a un Mario Biondi per intenderci).
Lo studio e la scoperta della natura e del repertorio di questa autrice hanno peraltro rivelato ben altra pasta artistica sotto le facili apparenze. La reminiscenza holidayana nel dna vocale della cantautrice canadese appare in questo contesto più come una seconda paradossale incarnazione della grande jazzista americana in cerca di azzardate mescolanze armoniche che come sterile imitazione di stile. E così, mentre il passaggio dal semi esordio del 2004 di “Careless Love” (il vero esordio del 1996 era un misconosciuto “prequel” d’artista) alla vena più estroversa e spigliata dell’ottimo “Half The Perfect World” (2006) consolidava la nostra come forbita e calda interprete di standard d’ogni risma, ecco che si registra un repentino mutamento di referente stilistico nel 2009 con il primo album di sole composizioni originali “Bare Bones”, prezioso scrigno dove la Peyroux squaderna e rivolta tutte le possibili declinazioni narrative del pop di alto profilo e di varia contaminazione, avvalendosi della collaborazione di un musicista nonché produttore del calibro di Larry Klein presente anche in veste di coautore insieme a un grande “armonista” come Walter Becker (Steely Dan).
Tale binomio ha come effetto di dirottare la nostra su territori che si pongono in maniera eclettica e stravagante tra jazz, funky, soul e derivati di alto profilo e ne consegue un lavoro straordinario che raggiunge vertici sorprendenti anche tematico-lirici nella ballad standard-oriented “Damn The Circumstances” (la perdita totale come presupposto di una ipotesi di rinascita), nelle argute sottigliezze armoniche vergate da Walter Becker in “Bare Bones” e “You Can’t Do Me”, nella redentiva “I Must Be Saved” e nella rapsodia elegiaca della conclusiva “Somethin’ Grand”, senza tema di smentita uno dei brani per sè di maggior cifra artistica e autenticamente struggenti che si sia sentito in giro in questi ultimi anni.
La fresca pubblicazione del nuovo “Standing On The Rooftop” porta a ulteriori esiti e, se vogliamo, a ancor più estreme conseguenze la vena onnivora della Peyroux che, con la complicità del nuovo produttore Craig Street (Norah Jones) estende le aree di influenza del proprio alfabeto musicale sino a contesti rock, blues e eminentemente d’autore. Ne nasce un lavoro dove a una creatività a tratti incontrollata e non sempre selezionata (tre brani sostanzialmente superflui), fa da contraltare una ricca e serrata alternanza stilistica che contrassegna almeno i primi nove brani del disco che assomma quindici canzoni di cui dodici brani originali e tre cover.
L’opening “Martha My Dear” rilegge l’eccentrica indole boogie-saloon dell’originale beatlesiano in un delicato e melanconico acquarello country, mentre la briosa “The Kind You Can’t Afford” (scritta con l’ex Stones Bill Wyman) coniuga aromi puntuti alla Steely Dan e rootsie-blues ruspante d’antan; ed ancora sapori knopfleriani e western primi anni ’70 contrassegnano vibrati e riverberi chitarristici di “Things I’Ve Seen Today”. In questa prima parte del lavoro si alternano sapientemente mid-tempo sostenuti e intense ballad tra le quali l’eterea nostalgia a tinte pastello di “Leaving Home Again” e le reminiscenze standard da filmone americano di “Fickle Dove”.
Qui si situa Il centro nevralgico del lavoro dove l’arte della Peyroux esplode nella fremente ballad “Lay Your Sleeping Head” (su liriche tratte da una poesia di W.H. Auden) sospesa tra gli antichi classicismi di chitarra dell’autore Marc Ribot e bellissime coloriture vocali semitonali mentre l’ossessiva “Standing On The Rooftop” si pone tra la consueta forza della narrazione vocale jazzata e un pulsante tappeto sonoro offerto da un gioco reiterato di ampli-guitar.
Ed ancora dove la dylaniana “Threw It All Away” vede la singer canadese giocare in maniera materna e gioiosa con le tipiche striature vocali del grande antecedente, “The Party Ought To Be Coming Soon” è da par suo un altro grande sfoggio di estro compositivo imbevuto di arioso bluegrass e deliziosi intermezzi pianistici boogie.
Il meglio dell’album si chiude con una superlativa cover della johnsoniana “Love in Vain” codificata in una ostinata successione di accordi sinistri e stridenti su un cantato faithfuliano e con la brillantezza stravagante della vivace “Don’t Pick a Fight With a Poet”, un’effervescente vaudeville giocata tra arguta sensualità alla Doris Day e profumi sudamericani filtrati in atmosfere hollywoodiane. I richiami “standard-jazz” come emergono nei due brani finali tradiscono un omaggio perlopiù di prammatica alla prima Peyroux così come non convince quella sorta di James Bond-song qual è “Superhero”, ma – come ulteriore toccasana – la nostra ci incanta e disorienta con una scaltrissima “Meet Me In Rio” tra canto sensuale e conquistatore e atmosfere sagacemente leziose alla maniera del Fagen di “Kamakiriad”.
(Alessandro Berni)