“Facevamo pugilato perché c’era una doccia calda gratis”. Erano tempi duri, quelli del secondo dopoguerra. Giovanni Benvenuti detto Nino era nato a Isola d’Istria nel 1938, vale a dire appena vent’anni dopo che il paese era passato dall’Impero Austro-Ungarico all’Italia (ma poi sarà territorio tedesco, quindi jugoslavo e oggi sloveno) e conosceva bene la paura delle foibe, la difficoltà dell’esodo in massa seguito dall’inserimento in mezzo a “fratelli” italiani che spesso si dimostravano ostili, l’insicurezza nel mettere insieme il pranzo con la cena.
Infilare guantoni e paradenti per salire sul ring era un modo come un altro (e spesso lo è ancor oggi) per affrancarsi dalla povertà. E permettersi anche una doccia calda.
Benvenuti ha finito di combattere l’ultimo incontro ieri pomeriggio a Roma, vinto da una grave malattia che lo tormentava da tempo, ma da oltre cinquant’anni era entrato nell’immaginario collettivo, circondato dall’aureola del “mito” o della “leggenda” come tanti colleghi di lavoro, commentatori, giornalisti, politici si sono affrettati a sottolineare appena saputa la notizia.
I motivi sono diversi, a cominciare dal fatto che nell’Italia della rinascita post-bellica e del boom economico, il pugilato era considerato insieme al ciclismo e più del calcio uno sport davvero popolare, nel senso di semplice, genuino, diretto. Non è vero che fosse anche violento, non lo è nemmeno oggi. Non più degli sport a motore, la cui velocità in pista contiene i brividi della violenza a due o quattro ruote.
Ha le sue regole, i suoi limiti, i suoi regolamenti sempre aggiornati eppure vecchi come il mondo: due uomini (lasciamo stare la versione femminile, che ci pare negazione del pugilato stesso e lo diciamo con tutto il rispetto per la fatica e l’impegno delle donne che lo praticano) si fronteggiano con le sole “armi” della propria forza e della propria intelligenza, come dev’essere in ogni disciplina correttamente vissuta e com’è rimasto identico in sostanza dai tempi dei Greci e dei Romani.
Tanto spesso chi vi si avvicinava era gente grande e grossa e con una fame repressa nello stomaco. Proveniva dalla campagna o dalla fabbrica e alla sera andava in palestra non per dimagrire o fare pilates, ma per tenere a bada gli spettri della catena di montaggio o della vanga che si allungavano sulle loro giovani vite. E poi non c’era bisogno di fare grandi spese: per salire sul ring bastavano un paio di guantoni imbottiti e scarpe adatte.
Nella figura bene impostata, simpatica, perfino aitante di Nino, il popolo (mica solo operai e contadini, anche industriali e politici) vedeva la rivincita dell’italiano capace finalmente di rialzare la testa. Benvenuti possedeva una sua forte personalità (quanta rivalità con Mazzinghi!), le parole taglienti non gli mancavano, eppure dimostrava rispetto per gli avversari sia che lo vincessero, sia che fosse lui a batterli.
E di vittorie la sua carriera è piena, tanto da farne il più grande pugile italiano di tutti i tempi: su 90 incontri da professionisti ne perse solo 7, qualcuno con verdetto discutibile, come a volte accade in questa disciplina regolata da giudici non sempre imparziali, una ventina le vittorie per ko, tre volte medaglia d’oro in tre categorie diverse (la prima alle Olimpiadi romane del 1960, quelle di Cassius Clay), unico italiano ad aggiudicarsi, anno 1968, il “Fighter of the Year”, il più prestigioso riconoscimento giornalistico esistente.
Provò con la politica, ma capì presto che non era cosa per lui, un po’ meglio andò con il cinema (due pellicole da co-protagonista), decisamente meglio come commentatore sportivo. Ovviamente di pugilato. Sempre con quel sorriso sulle labbra e il ciuffo un po’ ribelle che conquistava donne e piaceva a tutti. E poi sapeva parlare bene italiano, cosa rara – almeno allora – nell’ambiente dei “boxer”.
Nemmeno l’ultimo incontro, quello che avrebbe dovuto restituirgli il titolo mondiale dei pesi medi contro Carlos Monzon, fu sufficiente a toglierlo dal cuore della gente. Sul ring di Montecarlo, la sera dell’8 maggio 1971, presenti il principe Ranieri di Monaco, David Niven, Alain Delon, Giovanni Borghi (l’inventore dei frigoriferi italiani), alla terza ripresa Benvenuti mette il ginocchio a terra, sfinito da una serie di pugni ai fianchi. Si rialza, ma dall’angolo vede volare sul tappeto la spugna che è segno di resa. Nino non vuole, si arrabbia, le sferra un calcio: era un gesto d’amore del suo manager storico, Bruno Amaduzzi, che teneva alla salute del suo pupillo più che al titolo di campione.
Davanti alla tv in bianco e nero, qualche italiano pianse, ne siamo certi. Eppure, anche in quel gesto d’istinto, fatto col coraggio e la rabbia agonistica di sempre, gli italiani (di nuovo alle prese con la crisi economica) vedevano il loro idolo, uno nel quale potersi riconoscere anche nella sconfitta. E tale è rimasto.
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