Monfalcone è una città di circa 30mila abitanti di cui 9mila non italiani, la maggior parte dei quali bengalesi. Degli 825 nuovi nati nel 2023, metà sono nati da genitori immigrati. La realtà dei cantieri navali offre ai nuovi arrivati buone opportunità di lavoro. La città dista altresì meno di 30 km da Trieste, città che per storia più o meno recente ha sicuramente molto da offrire in fatto di rapporti interculturali. La Regione è governata da decenni dal centrodestra come pure il Comune di Monfalcone.
Nei giorni scorsi l’opinione pubblica è stata informata di una decisione “irrituale” assunta dalla dirigente scolastica dell’istituto professionale “Pertini”. Per consentire ad alcune studentesse il diritto all’istruzione è stata organizzata per loro una procedura particolare di riconoscimento. Le studentesse in questione, infatti, appartenenti alla comunità del Bangladesh, indossano il niqab, un copricapo che vela l’intero viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Si è pertanto previsto che una docente incaricata, in uno spazio apposito, procedesse al loro riconoscimento, verificato il quale le studentesse potessero entrare in aula velate per seguire la normale attività didattica. La particolare procedura ha generato in alcune famiglie una richiesta di approfondimento e il fatto è arrivato ai media.
Solito clima “da stadio” pro e contro la decisione. Ora la vicenda è sul tavolo del ministro Valditara che si è impegnato a risolvere la questione. “Senza una legge che riveda la normativa vigente non si può chiedere a dirigenti scolastici e docenti più di quanto ha fatto la preside della scuola di Monfalcone”, ha osservato Valditara, che infatti non ha attivato a carico della dirigente alcun procedimento disciplinare.
Qualcuno chiede a gran voce una norma che consenta alle scuole la mera applicazione di quanto la legge stabilirà. Altri si appellano all’autonomia degli istituti. Si ricorda che il niqab è un copricapo che vede anche nel mondo islamico pareri discordanti, è sostanzialmente diffuso solo in alcune zone, in particolare nello Yemen e nel Bangladesh ma è rifiutato in altre aree.
In Europa in relazione al tema dell’abbigliamento scolastico la situazione è molto variegata: il Paese laico per eccellenza, la Francia, da tempo ha scelto di rinunciare all’ostentazione di qualsiasi segno religioso. È questa la strada che vogliamo percorrere? Diversa è la situazione nel Regno Unito, dove, in un panorama sostanzialmente oppositivo a burka e niqab, ad ogni istituto è lasciata autonomia di normare l’abbigliamento. Non voglio entrare nel dibattito giuridico, che immagino segnato da posizioni antitetiche, fortemente condizionato da visioni politiche divisive. Esprimo solo preoccupazione per una scelta – quella del “Pertini” – che risulta in forte contraddizione con la dimensione pedagogica e didattica che caratterizza il contesto scolastico.
Vero è che negli ultimi decenni si è visto nella scuola italiana una rinuncia al decoro e alla misura del vestiario, fino all’accettazione di scelte e stili inaccettabili in altri contesti, dove invece il dress code è imposto e rispettato. Un altro paradosso italiano!
In questo caso la questione è palesemente più complessa, soprattutto perché si tratta di minori. Siamo certi che le ragazze in questione abbiano scelto liberamente di occultare quasi tutto il loro viso? E non siano, le ragazze, piuttosto vittime di un’educazione drammaticamente repressiva di ogni libertà? Siamo certi che un volto totalmente oscurato ad eccezione degli occhi sia compatibile con la dimensione essenziale della scuola come luogo di rapporti e di relazione?
La scuola non è un generico ufficio pubblico, nel quale il semplice ingresso dovrebbe essere garanzia di fruizione democratica dei servizi. L’ingresso da solo non ottempera al diritto-dovere di istruzione. La scuola è il luogo per eccellenza della relazione fra pari, sviluppata e orientata alla crescita culturale e umana attraverso la figura dell’insegnante.
Alla luce del dibattito molto presente anche nella cultura islamica, non rischiamo di sostenere posizioni fortemente oscurantiste, lontane anni luce dalla tradizione pedagogica occidentale che fa della relazione il cuore dell’insegnamento e quindi dell’apprendimento? Non è la scuola l’ambito privilegiato per promuovere legami significativi? Non è il luogo speciale in cui i volti di coetanei devono o possono incontrarsi per privilegiare la dimensione collaborativa dell’apprendimento? In che misura il nascondimento dei visi potrebbe nuocere all’incontro fra culture, alla costruzione di amicizie significative ed essere la premessa di atteggiamenti non accoglienti che favoriscano invece l’emarginazione? La scuola è di norma la premessa di relazioni e amicizie che si prolungano in altri contesti, ricreativi, sportivi, dai quali soprattutto le ragazze appartenenti a etnie particolarmente integraliste risultano spesso drammaticamente escluse.
Molti autorevoli commentatori si sono già palesemente schierati a favore della decisione dell’istituto, ma il confronto è ancora aperto. Pur comprendendo le ragioni della dirigenza, preoccupata di garantire il diritto all’istruzione, temo che questa scelta possa costituire un atto di subordinazione a un integralismo estraneo alla cultura europea e comunque un ostacolo alla dimensione relazionale, fondamento di qualsiasi apprendimento.
Forse la prospettiva dell’autentico confronto fra le componenti, la ricerca di un dialogo sincero tra adulti (docenti e genitori delle ragazze) avrebbe potuto essere lo strumento per trovare un compromesso in grado di rispettare le dinamiche scolastiche, senza forzature, nel rispetto della legge sull’autonomia delle istituzioni scolastiche e della loro specificità.
Il ministro si è detto impegnato a favorire la formulazione di provvedimenti normativi ad hoc; dialogo e buon senso forse avrebbero potuto essere già oggi strumenti sufficienti ed efficaci ad un percorso di più efficace relazioni fra pari.
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