Fino a non molto tempo fa ogni uscita mensile dei dati Istat sul mercato del lavoro era oggetto, dai parte dei media, di grandissima attenzione, come giusto che fosse, visto che di mese in mese veniva toccato un nuovo record negativo: se non sovrastata da altri eventi, questa è stata spesso la notizia di apertura dei vari TG a ogni ora del giorno, e di molti quotidiani. Ora che la situazione del mercato del lavoro si è relativamente assestata, pur se su livelli di negatività inferiori solo a quelli della Grecia, già l’interesse si sta attenuando e svanirà quasi del tutto, siatene certi, quando la curva dello squilibrio tra domanda e offerta (sintetizzato dal tasso di disoccupazione) comincerà ad abbassarsi, sia pure molto lentamente. È la stessa regola per cui alla condanna, o anche solo all’iscrizione di un politico nel registro degli indagati viene dato un titolo a tutta pagina, la prima, mentre nel caso in cui venga scagionato gli è riservato, al massimo, un trafiletto nelle pagine interne. Tutto questo lo sanno anche i bambini, ormai.
L’attenzione al mercato del lavoro è rimasta, ma ha cambiato natura: ogni dato, anche il più estemporaneo, è diventato il microscopio sotto le cui lenti mettere il Jobs Act, per dimostrarne, a seconda della collocazione politica, il successo o l’inefficacia; il tutto sulla base di variazioni delle varie grandezze di uno o due decimali, che potrebbero corrispondere al solo errore statistico connaturato a qualsivoglia indagine.
Venendo ai dati sul mercato del lavoro ve ne è, uno tra essi, che è sempre stato sottolineato in modo particolare, quello del tasso della disoccupazione giovanile, che altro non è che la quota di giovani (fino a 24 anni o a 29 anni di età) in cerca di lavoro fra quanti, della stessa età, sono presenti sul mercato (gli altri essendo occupati). La cosa ovviamente non si ferma lì, e il tema dei giovani senza lavoro non manca mai di essere citato in ogni relazione o convegno, da destra come da sinistra, da “laici e chierici”, come si diceva una volta: tutti, dal Papa e dal Presidente della Repubblica in giù, a piangere sulla “generazione perduta” dei giovani senza lavoro.
Sia chiaro, il problema c’è, eccome, ma è l’approccio tutto “mammistico” con cui da tutti o da gran parte viene affrontato, che non contribuisce certo a risolverlo, anzi, è proprio questo approccio che dà l’alibi, a molti giovani, per crogiolarsi nella loro situazione di presunti “rifiutati” dal mercato del lavoro e quindi per allontanarsene, smettendo la stessa ricerca dell’impiego: un allontanamento che paradossalmente abbassa i livelli della disoccupazione, dato che smettendo di cercare un impiego essi passano tra le “non forze di lavoro”, uscendo quindi dal calcolo sia dei disoccupati che del tasso di disoccupazione. Fuga inutile, perché la lunga mano della statistica è andata a ripescarli, coniando anzi per questi transfughi un nuovo termine – Neet – che sta per senza lavoro, e che nemmeno lo cercano e nemmeno sono impegnati in qualche attività formativa: insomma, che non fanno proprio niente dal mattino alla sera, salvo ovviamente digitare su uno smartphone che nessun genitore si sognerebbe mai di negargli.
Per un approccio diverso si può, innanzitutto, conoscere e tenere a mente qualche altro numero e qualche altro andamento che non sia “mese su mese” o “anno su anno”, nell’illusione che guardando le cose più da vicino si possa vedere meglio, il che non sempre avviene. Ovviamente non è che commentando ogni dato congiunturale si possa “fare analisi in serie storica”, ma vi sono alcuni aspetti che dovrebbero comunque esservi nel sottofondo della memoria, dietro le quinte, per così dire, dell’ultimo dato disponibile.
Innanzitutto dimensioniamo il fenomeno. I giovani da 15 a 24 anni sono (media 2014) 5,97 milioni: anche se dal 2008 sono aumentati di 44 mila unità, nei 20 anni precedenti erano diminuiti di oltre 3,1 milioni, passando da 9 a 5,9 milioni; nel recente passato solo la componente straniera ne ha frenato la riduzione e prodotto il leggero incremento degli ultimi anni: il calo demografico iniziato a metà degli anni ‘60, non poteva, due decenni dopo, che produrre questo risultato. Contemporaneamente è si abbassato il grado di partecipazione dei giovani al mercato del lavoro (il tasso di attività): a metà degli anni ‘80 superava ancora il 47%, due decenni dopo era appena al di sopra del 30% e dal 2008 al 2014 ha perso ancora oltre tre punti, portandosi al 27%.
Lo “scoraggiamento” che dall’inizio della crisi avrebbe allontanato i giovani dal mercato del lavoro, dopo qualche ricerca infruttuosa dell’impiego, è quindi solo un’invenzione consolatoria e giustificazionista; la realtà è che a metà degli anni ‘80 quasi un giovane su due era presente sul mercato del lavoro, adesso poco più di uno su quattro. Il primo quesito cruciale a cui dare risposta riguarda, quindi, come sia avvenuto, anno dopo anno, questo allontanamento dei giovani dal mercato del lavoro, che poco ha a che vedere con la crisi o con l’innalzamento del grado di scolarità di secondo e terzo livello e che forse è dipeso molto di più dal prolungamento dell’età adolescenziale e giovanile, da cui è derivato uno spostamento in avanti del momento di assunzione delle responsabilità, del pensare davvero al lavoro, del metter su famiglia e così via.
Questo ha nascosto un fatto importantissimo, che ha esonerato tutti, dai genitori alla politica, a riconoscere l’esistenza di una questione giovanile. Dagli ultimi anni ‘80 fino al 2008, quindi per un ventennio, la riduzione dei giovani presenti sul mercato del lavoro ha riguardato sia gli occupati che i disoccupati, e il tasso di disoccupazione, che nel 1987 (circa 20 anni dopo il picco della natalità toccato a metà degli ani ‘60) segnava un massimo storico (fino ad allora) del 32,4%, con oltre 1,4 milioni senza lavoro, scendeva nel 2007 al minimo del 20,7%, corrispondente ad appena 370 mila giovani in cerca di lavoro: tutti contenti di ciò, era quasi trascurabile che negli stessi anni i giovani occupati fossero diminuiti di un milione e mezzo di unità e quelli presenti su mercato del lavoro di quasi due milioni e mezzo!
Cos’è avvenuto con la crisi scoppiata nel 2008? Nell’arco di 7 anni il tasso di attività giovanile si è abbassato ancora di 3,7 punti, poco più di mezzo punto all’anno, frenando la caduta che nei 7 anni precedenti era stata mediamente di 1,6 punti all’anno: pur in presenza di una crisi che tagliava i redditi familiari e magari rendeva disoccupato qualche altro componente della famiglia, non vi è stata alcuna vera inversione di tendenza: la riduzione media dei giovani presenti sul mercato del lavoro che nei 7 anni precedenti la crisi era stata di quasi 140 mila all’anno, si è portata a soli 29 mila, senza cambiare di segno, se non episodicamente. Ma è bastato questo rallentamento per far schizzare verso l’alto il tasso di disoccupazione giovanile (oltre 22 punti in soli 7 anni, più di 3 punti all’anno) e determinare un incremento dei giovani disoccupati di 320 mila unità, dalle 372 mila del 2007 alle 692 mila del 2014. La polvere per tanti, troppi anni, nascosta sotto il tappeto, è venuta tutta allo scoperto (nel grafico a fondo pagina sono riassunti i dati).
E verrebbe quasi da dire meno male che questi 26 mila giovani sono usciti ogni anno dal mercato del lavoro, altrimenti sarebbero andati a incrementare in egual misura il numero dei disoccupati e il tasso di disoccupazione sarebbe arrivato non al 42,7%, ma quasi al 50%!
Certo, alla crescita dei giovani in cerca di un impiego ha contribuito anche la minore domanda di lavoro, ma la riduzione degli occupati, 75 mila in meno ogni anno, è stata finanche inferiore a quella dei 7 anni precedenti la crisi, quando i giovani occupati sono diminuiti mediamente di 87 mila unità ogni anno. E allora possiamo chiederci: ma non è che questa riduzione dei giovani occupati, sia negli anni precedenti la crisi che durante il suo corso, sia stata determinata anche dal fatto che calava l’offerta giovanile (di quasi 140 mila unità all’anno prima, di quasi 30 mila poi), a sua volta dovuta, sia prima che dopo, alla simultanea riduzione del numero di residenti fino a 24 anni, e del loro grado di partecipazione al mercato del lavoro?
E non è che dovremmo piangere non sui quasi 700 mila giovani disoccupati che abbiamo (ne abbiamo avuti anche più del doppio), ma piuttosto sul fatto che siano solo 700 mila? Perché quale futuro può avere un Paese, senza giovani? Certo, ci sono gli immigrati e i loro figli, ma siamo proprio sicuri che sia lo stesso, da mille punti di vista? Possibile, insomma, che quando si parla di questi temi non si riesca a guardare più al di là di domani o massimo dopodomani, e non si trovi di meglio che insultarsi a vicenda?
(1- continua)