Paolo Borsellino, chi è e come è morto
Sono trascorsi 30 anni dalla strage di Via D’Amelio, quando Paolo Borsellino, giudice antimafia, rimase ucciso nel drammatico attentato. Secondo i giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta, quello di via D’Amelio rappresenta il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Dopo la strage di Capaci in cui rimase ucciso Giovanni Falcone, Cosa Nostra finì per colpire anche l’amico e collega Paolo Borsellino che con coraggio aveva raccolto il testimone delle indagini. Non è un caso se lo stesso Borsellino sapeva bene di avere poco tempo a sua disposizione per portare a termine il lavoro condotto fino a quel momento da Falcone.
Anche Paolo Borsellino, mettendosi contro la magia sapeva di aver firmato la sua condanna a morte ma questo non bastò a frenare la sua battaglia ed il suo lavoro. “Ho poco tempo”, continuava a ripetere nelle ultime settimane di vita, come ricordò anche il fratello Salvatore Borsellino: “Mio fratello Paolo continuava a dire ossessivamente: “Devo fare in fretta””. Paolo aveva la certezza di morire per mano della mafia ed anche lui fu ucciso dal tritolo di Cosa Nostra il 19 luglio 1992 in via D’Amelio. Non una via qualunque, ma lì dove per Borsellino c’era aria di ‘casa’ e famiglia, ovvero proprio mentre andava a trovare la madre.
Paolo Borsellino ed il lavoro con Giovanni Falcone
Nato nel quartiere palermitano dove vivevano tra gli altri Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta, Paolo Borsellino dopo la laurea in Giurisprudenza, nel 1975 entrò nell’ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Grazie all’indagine condotta da Borsellino ed Emanuele Basile, cinque anni dopo si arrivò all’arresto dei primi sei mafiosi. E’ lo stesso anno della morte di Basile e dell’assegnazione della scorta a Borsellino ed alla sua famiglia. Sempre nel 1980 fu istituito il pool antimafia. In seguito alle uccisioni dei commissari Montana e Ninni Cassarà, Falcone e Borsellino furono trasferiti nella foresteria del carcere dell’Asinara, dove iniziano a scrivere l’istruttoria per il maxiprocesso. Nel 1986 Borsellino fu trasferito alla procura di Marsala e solo cinque anni dopo tornò operativo a Palermo.
Dopo l’attentato a Falcone, Borsellino sapeva ormai di avere le ore contate. Pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio, in un discorso nell’atrio della biblioteca comunale di Palermo attaccò pesantemente lo stato e le sue istituzioni e parlò di “qualche Giuda che lo ha preso in giro” asserendo che “la sua morte l’avevo in qualche modo messa in conto”.
La strage di via D’Amelio
Dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, quel 19 luglio 1992 Paolo Borsellino si recò con la scorta in via D’Amelio, dove viveva la mamma e la sorella. Erano le 16.58 quando una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre di Borsellino, con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose. L’esplosivo uccise inevitabilmente Borsellino ma anche i cinque agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto è Antonino Vullo.
A distanza di trent’anni da quella strage non si conosce ancora l’identità di quegli uomini che si muovevano sul luogo della strage. Come ignota rimase la fine della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino il quale, dopo la morte dell’amico Giovanni Falcone, aveva un solo obiettivo: scoprire cosa ci fosse dietro la strage di Capaci. Per la strage di via D’Amelio, il 3 luglio 2003, la Cassazione ha confermato le condanne all’ergastolo inflitte ai mandanti della strage, tra cui Totò Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino, Cosimo Vernengo, Natale e Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Scotto, Gaetano Murano e Gaetano Urso.