Nessuno può sapere chi sarà il prossimo successore di Pietro, ma la consegna di papa Francesco è chiara: la Chiesa, se vuole sopravvivere, deve uscire dal tempio. “Ma potrebbe anche morire. E se ciò avvenisse, non sarebbe un problema”, dice, in modo spiazzante, Rocco Buttiglione, filosofo, amico personale e collaboratore di Giovanni Paolo II, due volte ministro, oggi docente nella Pontificia Università Lateranense.
La morte di papa Francesco non lascia solo la Chiesa senza pastore, ma riapre le domande sulla direzione intrapresa in questi 12 anni di pontificato, obbliga a ricapitolare il papa “venuto dalla fine del mondo”, a ripensare vecchie categorie, a metabolizzare il suo magistero.
“L’ultima volta che ci siamo incontrati è stato in occasione gli attacchi contro l’Accademia Internazionale dei Leaders cattolici” racconta Buttiglione al Sussidiario.
“Io andai dal papa a dirgli: santità, io sono un allievo di don Giussani, che diceva sempre: se il cardinale mi dice di chiudere Gioventù studentesca in 48 ore, io lo faccio. Il cardinale, si badi, nemmeno il papa. Io a papa Francesco ho detto la stessa cosa: se l’accademia va contro ciò che lei, santità, ha in mente, la chiudo subito”.
E papa Francesco?
Si mise a ridere e mi chiese se ero impazzito. Ci diede tutto il sostegno di cui avevamo bisogno.
Misericordia è una delle parole pulsanti di tutto il pontificato. “Miserando atque eligendo” (“Per misericordia, lo scelse”) era il motto del vescovo Bergoglio e lo è stato di papa Francesco. Una “riforma” riuscita?
Un compito. Jorge Bergoglio ha sempre lottato contro una visione teologica nella quale le virtù cardinali vengono prima delle virtù teologali. Cioè devi essere buono, così meriti un premio. Dopo, come premio per le virtù cardinali, riceverai in sovrappiù una grazia non legata alla natura, sovra-naturale, e con essa la fede, la speranza e la carità. Invece Francesco era convinto di un’altra cosa.
Quale?
Prima c’è un incontro che tocca il cuore e cambia l’io; prima vengono le virtù teologali. In inglese non si dice “teologali” ma “divine” e il senso diventa più chiaro: vengono da Dio, non siamo noi a svilupparle con il nostro sforzo.
La grazia “primerea”, diceva Bergoglio con una espressione intraducibile, anche se il senso si intuisce molto bene.
Esatto. La grazia viene prima. La perfezione morale, la coerenza, vengono dopo. Forse e non sempre, perché ci sono le cadute. Il Vangelo non ci dice se l’adultera dopo aver incontrato Gesù ha implorato il perdono del marito ed è diventata la moglie e la madre migliore. Non ci dice neppure se ci ha messo mesi o anni a districarsi dal groviglio di relazioni nelle quali si era cacciata. E non ce lo dice perché il cammino della grazia è sempre sorprendente. Nondimeno, quell’incontro con Cristo le ha stravolto la vita. Si può aggiungere una cosa.
Prego.
San Paolo la pensava come Bergoglio.
Continuità o frattura di Francesco rispetto a Wojtyła e Ratzinger?
Bergoglio è stato l’uomo di Wojtyła in America Latina. Nella preparazione della conferenza di Puebla del ’79 ebbero un grande ruolo un certo numero di argentini, Lucio Gera, Alberto Methol Ferré e Jorge Mario Bergoglio. Francesco Ricci ed io facevamo un gran viavai tra la Polonia e Buenos Aires perché gli argentini erano interessatissimi al papa polacco e volevano capirlo.
E voi?
Noi importammo in America latina dosi massicce di Giussani e Del Noce. Va detto che si parlava di tutto e si mescolava tutto, senza troppe preoccupazioni di esattezza filologica.
Ma Wojtyła criticò fortemente la teologia della liberazione.
Quella di Bergoglio e dei suoi amici non era teologia della liberazione, ma una sua variante, che lui stesso chiamò “teologia del popolo” o della cultura. Una teologia che partiva dall’esperienza di vita del popolo latinoamericano, dal modo in cui Cristo ha segnato il cuore di quel popolo. Il criterio dunque è Cristo, non l’analisi marxista, che viene accantonata.
La preferenza per i poveri, così centrale in papa Francesco, viene dalla teologia del popolo?
Sì. Quando gli atti della preparazione di Puebla saranno pubblicati, si vedrà l’importanza del ruolo che ebbe Lucio Gera, grande amico e collaboratore di Bergoglio. Si confronti ciò che dice Bergoglio del popolo con il discorso di Giovanni Paolo II del 2 giugno 1979 a Varsavia.
Però Francesco è stato accusato di terzomondismo.
Wojtyła la pensava esattamente come lui. La fede fa in modo che due diventino uno, che molti diventino uno; genera famiglie, comunità, popoli. Ma il popolo può mentire. Se io dico “noi siamo un popolo” ma c’è gente che muore di fame, quell’essere popolo è una menzogna: è falsa la nostra identità, la nostra comunione, la nostra fede. Bergoglio lo sapeva benissimo e ha detto no a tutto questo.
Cosa lascia Francesco alla Chiesa più vecchia, quella che si è forgiata nella tradizione europea, e che oggi appare più in crisi?
Le lascia la consapevolezza di un cambio di epoca. Oggi la gran parte dei cattolici vive fuori dall’Europa. Vivono in Paesi poveri, dove si pensa che noi siamo colpevoli della loro povertà. Non è proprio vero, ma non è neppure del tutto falso. Tutta l’Africa sub–sahariana si è convertita nel corso del pontificato di Wojtyła. Quei popoli Vogliono pensare la fede a partire dalla loro esperienza, dalla loro cultura, ma non possono farlo senza un dialogo con l’Europa. E qui torna il rapporto Ratzinger-Bergoglio.
In che modo?
Ratzinger raccoglie il meglio della teologia europea per consegnarla a Bergoglio, perché da essa, fecondata dall’incontro con queste nuove culture, nasce una nuova teologia cristiana.
Non sembra un’operazione semplice.
Chiede una grande attenzione a ciò che è essenziale e una grande libertà rispetto alle forme storiche, contingenti, in cui l’essenziale si è consolidato.
Forse in epoca contemporanea nessun Papa è stato investito dalle critiche come Francesco dopo la pubblicazione di Amoris laetitia.
Amoris laetitia è perfettamente compatibile col grande insegnamento di Giovanni Paolo II, a cominciare dal Wojtyła di Persona e atto. L’azione umana, dunque la morale, insegna Wojtyła, ha un lato oggettivo e uno soggettivo. Sul piano oggettivo, se faccio il male non c’è niente che possa renderlo un bene. Ma l’azione umana ha anche un lato soggettivo e non sempre chi fa un’azione cattiva diventa cattivo attraverso quell’azione. Tutto il baccano montato intorno ad AL ha ignorato che il capitolo ottavo è incentrato sul lato soggettivo dell’azione, sulle circostanze attenuanti o esimenti.
I cardinali eleggeranno il successore di Francesco sulla base di una visione della Chiesa che si sono fatti durante questo pontificato. Quale lettura prevarrà?
Siamo nelle loro mani, è vero, ma non solo. È molto difficile fare previsioni, soprattutto, perché lo Spirito di Dio è pieno di sorprese. Ma c’è una consegna di Francesco che è molto chiara.
Quale sarebbe?
La Chiesa in uscita. La Chiesa deve abbandonare la certezza che le viene dallo stare nel tempio – nella convinzione che sarà il popolo ad entrare –, uscire e andare a cercare il popolo. E poi l’idea del discepolo-missionario, un uomo cambiato dalla fede che spontaneamente crea comunità attorno a sé. La Chiesa deve rinascere dall’Eucarestia, che genera personalità comunionali. A volte mi chiedono: la Chiesa sopravviverà nel secolo XXI?
E lei cosa risponde?
Se tutte le cose umane muoiono, potrebbe morire anche la Chiesa.
Ecco, forse Bergoglio, Ratzinger e Wojtyła non sarebbero d’accordo.
Io dico sempre: non so se morirà, ma non sarebbe un problema, perché la Chiesa è già morta più di una volta nella storia. È morta nella grande crisi del secolo V e Dio l’ha risuscitata con san Benedetto, san Patrizio, i santi Cirillo e Metodio. Dio suscita santi con i quali la Chiesa rinasce. È fisiologico per la Chiesa morire e risuscitare. Non stiamo celebrando la Pasqua?
(Federico Ferraù)
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