Nel cuore di una Roma accarezzata da una primavera luminosa, con la luce che danza sulle pietre secolari e il vento che carezza le cupole, questa mattina si è aperto un nuovo capitolo nella storia della Chiesa. Un uomo ha detto sì e un popolo ha taciuto per ascoltare un’anima che ha parlato al mondo intero.
Leone XIV, eletto dal cuore ancora ferito dalla morte di Papa Francesco, ha inaugurato il suo ministero petrino con un’omelia che non è stata un programma, ma una confessione. Non ha parlato da sovrano, né da riformatore: ha parlato da uomo. E questo, oggi più che mai, è il segno di un nuovo inizio.
In una piazza San Pietro gremita come nelle grandi svolte della storia è risuonato un messaggio essenziale, limpido, profondamente evangelico: la Chiesa deve sempre rinascere dall’amore, non dal potere. Deve costruirsi non su strategie, ma su relazioni; non su documenti, ma su volti; non su difese, ma su abbandoni.
Il nuovo Papa ha fatto della parola amore il fulcro del suo discorso. Ma non un amore qualsiasi: quell’amore che ha risollevato Pietro dal suo fallimento e lo ha reso capace di amare di più, come dice il Vangelo di Giovanni.
Ed è proprio nel Vangelo proclamato oggi che si cela il cuore del pontificato che comincia: un Cristo che non giudica, ma affida; un Pietro che non giustifica il proprio passato, ma accetta di farsi discepolo nel momento in cui non ha più certezze.
Il verbo greco αγαπάω (agapáo), che Gesù rivolge a Pietro, è un invito a vivere secondo la misura di Dio, non più secondo la misura dell’uomo. E il nuovo Papa ha fatto sua questa misura. Quando al momento della consegna dell’anello piscatorio ha guardato quel simbolo e ha abbassato lo sguardo con le lacrime agli occhi, Roma ha taciuto.
In quel gesto c’era tutta la sproporzione tra la fragilità di un uomo e la grandezza della sua missione. Come se in quell’istante irripetibile, silenzioso, sacro, la consapevolezza lo avesse trafitto a mo’ di una lama disarmante: ora sei tu Pietro. E non c’è niente di retorico in questo, solo la verità di un cuore che ha accolto il Mistero. Una verità che esige rispetto.
E invece, nei giorni successivi alla sua elezione, si sono già moltiplicati gli elogi sperticati e le critiche temerarie che soffocano il processo della conoscenza, ingabbiando colui che è da conoscere in uno schema rassicurante della mente. Ma chi e davvero Prevost? Chi può dire di conoscerlo davvero? Che diritto abbiamo di giudicare ciò che è appena nato?
C’è un tempo per comprendere le persone e un tempo per custodirle. E oggi, ha lasciato intendere Leone XIV, è tempo di ascolto, non di etichette. Le etichette servono a non pensare. Ma Dio ci chiede proprio questo: pensare. Cioè accogliere la realtà e lasciarci cambiare da essa. Perché quest’uomo ci è stato donato non per confermare le nostre attese, ma per smentirle nel modo in cui solo lo Spirito sa fare.
Il papa non è mai un’opera nostra: è un segno. E ogni segno ha bisogno di silenzio per essere capito. In questo, il nuovo Papa ha qualcosa da insegnare anche a chi non crede: il rispetto per i tempi della vita, il pudore davanti al Mistero dell’altro, la capacità di stare davanti a ciò che non comprendiamo con reverenza e non con sospetto.
A dare ancora più profondità simbolica a questa giornata, c’è un fatto che potrebbe sembrare secondario, ma che secondario non è: il 18 maggio era il compleanno di san Giovanni Paolo II. In questa strana coincidenza di date è come se la Provvidenza volesse ricordarci che i passaggi della storia non sono mai del tutto discontinui, ma si intrecciano come le stagioni, in un unico ciclo vitale.
Da Leone XIII, evocato oggi dal nuovo Papa, a Wojtyła, passando per Benedetto e Francesco, il magistero dei Papi e diventato nel tempo una sinfonia di voci, di stili, di accenti, ma con un’unica radice: Cristo. Leone XIV ha ribadito questo con forza e con dolcezza: la Chiesa non è un partito, non è un’organizzazione, non è un’identità chiusa. È un popolo in cammino verso Dio, un cantiere di comunione dove le diversità si abbracciano e non si cancellano. Ha invocato unità, non uniformità. Ha chiesto amore, non sentimentalismo. Ha invocato missione, non proselitismo.
E ha indicato una via molto semplice: quella della fraternità concreta, della carità operosa, del Vangelo come fermento nel mondo. Lui stesso ha parlato da fratello, non da dominus. E questo, in un tempo segnato dalla solitudine, dal narcisismo e dalla paura, e forse la più grande provocazione: che la vera autorità non è dominio, ma offerta. Non è sopra gli altri, ma con gli altri. La Chiesa presiede nella carità, ha detto. E nessuno ha potuto dissentire.
Allora sì, questa è davvero l’ora dell’amore. Non perché tutto sia semplice, ma perché l’alternativa sarebbe la morte dell’umano. In un mondo lacerato da guerre, disuguaglianze, ferite ambientali e spirituali, la voce della Chiesa può ancora dire qualcosa solo se resta una voce d’amore. Non di ideologia, non di paura, ma di amore.
E forse è proprio questo il vero inizio del pontificato di Leone XIV: un inizio senza rumore, ma pieno di senso. Un’invocazione che non chiama solo i cristiani, ma chiunque abbia ancora nel cuore la sete di verità, di pace, di bellezza e di giustizia. Camminiamo insieme, ha detto. E lo ha detto come si dice tra amici, non tra superiori e subalterni.
Siamo all’inizio, e tutto è fragile, come ogni cosa vera. Ma se avremo rispetto per questo tempo, se sapremo tacere e attendere, forse potremo anche capire che Dio non smette di sorprenderci. E che il Verbo di Dio, se vissuto, non ha mai finito di farsi carne. E abitare in mezzo a noi.
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