L’ex campione di pugilato, Patrizio Oliva, oggi simbolo del riscatto napoletano, rivela per la prima volta l’inferno domestico che ha plasmato il suo carattere d’acciaio: “A quindici anni seppellii mio fratello, a sedici tenevo le braccia davanti a mia madre per proteggerla”.
Parole che sanno di pugni nello stomaco, che svelano come, dietro i successi ottenuti sul ring, si nasconda una storia di dolore e di lotta alla sopravvivenza: un padre alcolizzato, la cui violenza trasformava la casa in un campo di battaglia; un lutto precoce che avrebbe spezzato chiunque a quell’età; la povertà che ti pone davanti a un bivio: la palestra o la criminalità.
Ma proprio da questo profondo dolore è nato l’uomo che oggi guida “Mille culure”, associazione che strappa i ragazzi ai vicoli bui di Napoli: “Quando vedo un tredicenne con il coltello, riconosco la stessa disperazione che avevo io”, ammette amaramente, denunciando un degrado che definisce, senza mezzi termini, una vera e propria “epidemia sociale”.
Le sue visite nelle carceri minorili dipingono un contesto desolante: adolescenti ormai vittime di una crescente analfabetizzazione emotiva, cresciuti più dai social che dai genitori, incapaci di gestire la frustrazione e il disagio, che spesso sfocia in rabbia e in violenza ingiustificata. Un’eredità avvelenata che Oliva imputa alla perdita delle relazioni familiari e alla falsa promessa dei social network, dove il successo sembra facile, alla portata di tutti, come se fosse dovuto anziché conquistato con perseveranza e dedizione.
Patrizio Oliva e la battaglia più dura: educare una generazione smarrita
In occasione dell’annuncio del suo film autobiografico, prodotto dalla Rai, Oliva trasforma la sua storia in un manifesto pedagogico e di formazione: “Il ring mi insegnò che ogni caduta può essere l’inizio di una risalita“, dice, comparando il pugilato all’arte di rialzarsi dinanzi alle avversità e agli ostacoli che la vita ci pone. La sua associazione diventa così una palestra di vita, dove i ragazzi imparano a trasformare la rabbia in determinazione, l’odio in fame di riscatto.
Un modus operandi che ricorda il metodo Conte, da lui ammirato per la capacità di motivare gli atleti: “Servono educatori che sappiano ascoltare prima di insegnare”, rimarca, non celando le critiche a una società che ha smesso di trasmettere valori, ma divenuta sempre più vuota e superficiale. La sua battaglia contro le dipendenze – dall’alcol che distrusse suo padre alla droga che annienta i quartieri – assume i toni di una sentita lotta morale.
Quello di Oliva è il racconto di un uomo che ha trovato nella boxe la sua redenzione, la via d’uscita da un mondo che lo avrebbe altrimenti sottomesso alla violenza e alla criminalità, a quella realtà dove regna la legge del più forte, e oggi vuole restituire alla sua città ciò che lo sport gli ha regalato, donando un futuro a chi non riesce più a scorgerlo.