Non c’è spazio per i compiacimenti e non c’è tempo da perdere: la sfida lanciata da Donald Trump e persino la lezioncina di JD Vance stanno spingendo l’Unione europea ad abbandonare vecchie certezze e anacronistici tabù. Eppur si muove, vedremo se si muoverà abbastanza in fretta e se andrà abbastanza lontano.
Ursula von der Leyen ha aperto la porta del nuovo Patto di stabilità, Emmanuel Macron l’ha spalancata, il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta ha dipinto un quadro allarmante e Mario Draghi ha lanciato i suoi strali contro un’Unione che finora si è presentata disunita di fronte al cambio di paradigma americano e internazionale. Tutto in un paio di giorni, poco prima, durante e subito dopo la conferenza di Monaco sulla sicurezza.
La Presidente della Commissione europea si è decisa: le spese per la sicurezza potranno essere scorporate dal computo del disavanzo pubblico. Ci si poteva pensare già prima, il lungo e puntiglioso dibattito sulla riforma del Patto di stabilità è durato un paio d’anni e alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, lo avevano proposto chiaramente. L’invasione russa dell’Ucraina non poteva lasciare immutato il solito trantran, gli Stati Uniti ben prima di Trump chiedevano ai membri europei della Nato di aumentare il loro contributo, almeno al 2% e il prima possibile. Adesso si cambia marcia.
Ursula von der Leyen parla di “sospendere” le regole di bilancio, per Emmanuel Macron non basta, bisogna considerare fuori dal Patto anche gli investimenti pubblici a cominciare da quelli strategici, non solo militari, ma anche quelli nelle alte tecnologie e nell’intelligenza artificiale. Del resto ormai tutto lo high tech ha un doppio utilizzo, pacifico e bellico, il fronte ucraino lo ha dimostrato chiaramente.
Anche questa idea non è nuova, al contrario è un vecchio cavallo di battaglia francese e italiano, non dimentichiamo che Mario Monti aveva avanzato la stessa proposta, ma la sua era rimasta una voce che parla nel deserto. E che dire degli interessi sui titoli emessi per finanziare gli investimenti pubblici?
A poco a poco, sfogliando il carciofo, al Patto non rimarranno che poche foglie, quelle che riguardano la spesa pubblica corrente. Ma attenzione, la transizione industriale avrà bisogno di robuste spese per far sì che la riconversione non provochi un vero e proprio collasso sociale. Quindi non si vede perché imporre limiti troppo rigidi anche alle spese per il welfare.
Il punto fondamentale è che il Patto era stato concepito per mettere in equilibrio le finanze pubbliche in condizioni di normalità, ma dalla crisi finanziaria del 2008 durata in Europa fino al 2012, viviamo in una sorta di stato d’eccezione. I conti dello Stato debbono essere in regola, però le regole cambiano con il mutare della realtà, il ministro delle Finanze più virtuoso non è quello che non spende, ma quello che spende bene. In piena pandemia Draghi tracciò una linea tra il debito buono e quello cattivo, scandalizzò i sepolcri imbiancati, ma anche i custodi dell’austerità. Adesso torna quanto mai d’attualità.
In un suo articolo sul Financial Times, Draghi chiede “un cambiamento radicale” e accusa: “L’Europa ha imposto con successo i dazi a se stessa”. In che senso? Intanto l’Eurozona non cresce e i dazi daranno un colpo molto duro a un’economia tanto dipendente dalle esportazioni e con un mercato interno così fiacco.
Due sono le zavorre soffocanti: la prima è “la lunga incapacità dell’Ue di affrontare i suoi vincoli di fornitura, in particolare le sue elevate barriere interne e gli ostacoli normativi. Il Fmi stima che le barriere interne dell’Europa equivalgano a una tariffa del 45% per la produzione e del 110% per i servizi.” La seconda è una regulation che “ha ostacolato la crescita delle aziende tecnologiche europee impedendo all’economia di liberare grandi benefici in termini di produttività”.
Fabio Panetta ieri ha parlato di “adottare un nuovo modello di sviluppo che valorizzi il mercato unico e riduca la dipendenza da fattori esterni. Vanno rilanciati gli investimenti, che da anni sono inferiori rispetto a quelli degli Stati Uniti”. Ma non basta investire di più, “è necessario investire meglio, privilegiando i progetti e le riforme in grado di innalzare la produttività, la cui bassa crescita rappresenta il principale fattore di debolezza dell’economia europea”.
Secondo le stime della Banca d’Italia, se i dazi americani fossero applicati e accompagnati da ritorsioni “la crescita del Pil globale si ridurrebbe di 1,5 punti percentuali”, con un -2% per gli Stati Uniti e un -0,5% per l’Europa con effetti maggiori in Germania e Italia, con le nostre imprese sempre più sotto pressione da parte di quelle cinesi, costrette a cercare mercati al di fuori del Nord America.
Si può reagire e nello stesso tempo portare stabilmente l’inflazione entro il 2% annuo? Per Panetta è possibile, tanto che l’obiettivo è quasi raggiunto. Molti economisti autorevoli ne dubitano anche perché le tariffe stesse produrranno un rincaro dei prezzi. L’altro tabù che prima o poi si dovrà affrontare, dunque, è questo magico tetto del 2%.
C’è un’altra questione aperta che riguarda l’Italia e non solo (pensiamo alla Francia che non riesce a scendere sotto un deficit pubblico del 5%): si può investire di più, spingere l’acceleratore sulle nuove tecnologie e nello stesso tempo tenere i conti in ordine? Panetta ha lodato “la gestione prudente che sta dando i suoi frutti” tanto che lo spread tra i titoli italiani e tedeschi si è ridotto, ma secondo il Governatore la chiave di volta resta il Pnrr che va assolutamente portato a termine (anche se finora ne mancano quasi due terzi).
Infine, la domanda delle domande: i Governi europei hanno davvero sentito la sveglia e si rendono conto che è giunta l’ora di cambiare? C’è da dubitarne. Tra una settimana si vota in Germania e il risultato nel “gigante malato” d’Europa sarà determinante per trovare una risposta.
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