È l’anno di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907): i suoi quadri sono messi in rilievo nella mostra affascinante Paesaggi di Novara o in quella raffinata Il genio di Milano; ed è attesa la mostra di settembre alla GAM di Milano, a lui interamente dedicata. Lo conoscono tutti, anche all’estero, per il famosissimo e monumentale Il Quarto Stato che, a ben vedere, non è forse l’opera più emblematica dell’idea di pittura che egli rincorse tutta la vita. Anzi, proprio quel dipinto a cui si dedicò con tanto impegno per una decina d’anni fu causa di una grandissima delusione, perché non riuscì nemmeno a venderlo, come era nelle sue aspirazioni. Presentato alla Quadriennale di Torino non ebbe alcun riconoscimento e la stessa città di Torino, a cui il pittore lo propose, rifiutò di acquistarla. Finì in un deposito, dopo essere stata acquistata dalla GAM di Milano, per riemergere alla fine del fascismo a palazzo Marino. Solo grazie alla riscoperta della critica e alla pubblicità del cinema, che portò la tela sul grande schermo utilizzandola per i titoli di testa del film Novecento di Bernardo Bertolucci, fu spostata dalla GAM al Museo del Novecento, come simbolo potente del secolo scorso. Dal 2022 è a disposizione del pubblico di nuovo alla GAM, insieme con altri dipinti del pittore di Volpedo.
Ma chi era davvero l’artista schivo e un poco allampanato, nato in quel paesino piemontese di campagna in provincia di Alessandria, da cui si allontanò solo per brevi periodi? Delle gioie e dei dolori, delle aspirazioni e della profonda umiltà di Pellizza e insieme del suo genio dai contemporanei non pienamente compreso, veniamo a conoscenza grazie al bel film Pellizza pittore da Volpedo, diretto da Francesco Fei. Distribuito da Nexo Studios per il ciclo “La grande arte al cinema”, con la voce narrante e toccante di Fabrizio Bentivoglio, viene proiettato in più di 200 sale di tutta Italia il 4 e 5 febbraio, dopo essere stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. È una pellicola che cattura lo spettatore per la sensibilità evocativa del regista che, attraverso le parole tratte dai taccuini dello stesso pittore e le suggestive immagini delicate di un luogo raccolto ma pieno di fascino e di mistero, ci fa rivivere un’avventura umana e artistica commovente, mostrandoci dipinti dalle tonalità soffuse e inquadrature della natura che sembrano quadri viventi.
Tra le colline e le radure della campagna seguiamo di spalle la figura dell’artista, pienamente inserito tra le stradine della sua Volpedo, tanto da decidere di allestire il suo studio vicino a casa, allargando un locale messo a disposizione dalla sua famiglia di piccoli agiati agricoltori. I genitori assecondarono la sua precoce vocazione artistica e acconsentirono alla sua richiesta di studiare all’Accademia di Brera prima, quella di Roma poi, in seguito a Firenze e a Bergamo. Ma il giovane ritornò sempre nel borgo natale, culla del suo sguardo sul mondo e sull’uomo, a contatto stretto con quei paesaggi a cui non poteva rinunciare.
Per meglio rappresentarli imboccò la strada del Divisionismo, la tecnica di separazione dei colori in singoli punti o linee che interagiscono tra di loro in senso ottico, divenendone forse l’esponente principale insieme all’amico Segantini, di cui condivideva l’amore incondizionato alla natura, in cui ambedue amavano immergersi, e la passione per gli effetti di luce. Come appare nel magnifico capolavoro Sul fienile, in cui il buio degli ultimi istanti di vita di un povero contadino, sdraiato sul fieno e confortato dall’Eucarestia e dalla tenerezza della donna che lo accudisce, è accostato allo splendore sullo sfondo delle case di Volpedo, inondate di sole.
Una sensibilità umana profonda, quella di Pellizza, che emerge anche nel pudico Speranze deluse, in cui il pittore accenna con delicatezza alla sofferenza della giovane pastorella, addolorata per l’abbandono dell’innamorato che, sullo sfondo, conduce in sposa un’altra fanciulla. Le opere dell’artista divisionista rispecchiano tratti malinconici del suo carattere, profondamente rispettoso dei genitori e amorevole con la giovane moglie analfabeta, che istruisce con dolcezza e che in verità è il suo sostegno.
Forse sarà proprio la scomparsa dei due punti di riferimento della sua vita, il padre e la moglie, che porterà Pellizza, non ancora quarantenne, a togliersi la vita nella casa che ormai gli appariva troppo vuota. Certo contavano anche la delusione e la perdita economica – era lontano dai principali circuiti commerciali – per quell’opera incompresa, Il Quarto Stato, per cui tutti oggi lo ricordano. Ma per l’artista piemontese la celebre tela era legata a quell’aspirazione al bene e alla giustizia, accompagnata dalla compassione per la sofferenza umana, che aveva raffigurato in tanti dipinti. Insieme però a una certezza: “Non è la verità che debbo rappresentare nel quadro, bensì la verità ideale”. Ovvero “un’arte per l’umanità”, come dichiarerà con convinzione, e come emerge nel suo imponente capolavoro, che rischia però di far fraintendere il vero intento dell’artista.
Il Quarto Stato in realtà rispondeva a un momento particolare della fine del secolo, in cui Pellizza annotava nei suoi taccuini, che raccolgono le sue riflessioni profonde e sincere: “La questione sociale s’impone; molti si sono dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non deve essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce deve essere migliore a patto delle condizioni presenti”. Infatti, se guardiamo con attenzione il dipinto, le cui figure in primo piano sono proprio ritratti di abitanti di Volpedo, il suo piccolo-grande mondo, scorgiamo sullo sfondo l’abbraccio discreto della natura – ancora lei – capace di sostenere il popolo, che con pacatezza ma determinazione sofferta avanza verso la luce della speranza.
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