Il ferro è rigido: “Santo Spirito, piega ciò che è rigido”. Il cemento è gelato: “Scalda ciò che è gelido”. Le storie, dietro quelle mura, son state deformate dal male: “Drizza ciò che è sviato”. Il carcere, nell’urbanistica di una città, staziona ai margini, chi sbaglia è mandato a soffrire fuori dalle mura: somiglia più ad un parcheggio incustodito che ad un paese cordiale, il male ha un’altezzosità tale da spaventare i passanti. A sentire la massa parlante, tutti dicono di conoscere così bene quel posto da giurare che quelli meritano di marcire là: certi cervelli sono così pigri da prendere in affitto pensieri già pensati, aggrappandosi come ostriche al primo affittavolo di turno. Altri accettano la sfida: la vita è un incontro di scherma, è importante sentire la lama. Se non s’allena, il cervello s’atrofizza.
Quasi centocinquanta persone ieri, giusto nel giorno della Pentecoste, han varcato le sbarre del carcere “Due Palazzi” di Padova. L’occasione era ghiotta: siccome son tutti d’accordo a giurare, in teoria, che “Dio-è-amore”, entriamo per vederlo all’opera, guerreggiando con la Grazia di Dio, che a guardarla da fuori non è sempre comprensibile.
Sono arrivati da tante parti dell’Italia, raccogliendo una proposta ideata dalla parrocchia del carcere alla direzione e al giornale La Difesa del Popolo: un’intera domenica – quella dello Spirito Santo – da passare fianco a fianco con persone detenute. I racconti in viva voce, il Pane spezzato, il pasto condiviso: “Passo da vent’anni qui davanti – dice un ospite all’ingresso -: mi ha sempre fatto venire il vomito. Oggi mi sono detto: vado a vedere chi c’è là dentro”.
Eggià: la teoria verrà abbandonata se produce più oscurità che luce. I pass, le sbarre, i cancelli. Gli agenti di polizia, il direttore, i volontari. Il ferro rumoroso, il cemento grigio, il garrito dei gabbiani. Entrano a passi lenti: più che entrare, scendono nel sottoscala buio della società, per visitare gli inferi. Poi, d’improvviso, li han davanti, faccia a faccia: “Ero una bestia, facevo sanguinare anche la mia ombra. Sono rimasto intrappolato nella mia libertà”: è una delle persone detenute a parlare. Gli sguardi, nell’auditorium, sono tutti fissati su quei volti da galera: “Mi impressiona la dignità con cui questi dicono la verità dei loro sbagli – ammette uno mentre gusta la bontà genuina del pranzo cucinato dalla cooperativa Work Crossing -: spiegano i fatti senza vergogna. Gliel’ho detto: ‘Il mio rispetto per te oggi è cresciuto’”.
A parlare è tutta gente che ha scaricato inferni di piombo. Poi, dentro, l’agguato esile di un incontro: con l’uomo, con il bene, con se stessi: “In carcere ho incontrato me stesso. Ho scoperto di valere assai”. Prima il suo unico linguaggio era la provocazione. Ora non più, o molto poco: d’altronde prima che ti capiti, non puoi mai sapere come reagirai.
A messa s’invoca lo Spirito: “Vieni, scendi”. Piega, scalda, drizza (Amen). Poi, “buon appetito!”: seduti tutti assieme a tavola, a dilungarsi nei racconti. Si è innescata una trasfusione di storie, la realtà ha battuto il sospetto dieci-a-zero. Finito tutto, i più escono, gli altri restano: i peccati van saldati fino all’ultimo. Sul portone uno s’avvicina: “Sono sottosopra: ho capito di vivere molto più vicino al carcere di quello che immaginavo”. È poco? Ognuno, poi, è rincasato. Fare pentecoste, ieri, è stato accettare di fare un trasloco in carcere per poi mettere a fuoco meglio la vita fuori. E imbarazzarsi nel noleggiare pensieri già pensati. Dentro o fuori poco cambia: non uccide il peccato, ma la disperazione.